Piazza Affari guarda alle banche e spera in un aumento dei tassi

Piazza Affari guarda alle banche e spera in un aumento dei tassi
di Osvaldo De Paolini
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Giovedì 21 Dicembre 2017, 09:42 - Ultimo aggiornamento: 15 Febbraio, 12:04
Avrebbe dovuto essere l'anno del Cigno nero. Il primo dell'era Trump, che per molti si sarebbe quasi certamente tradotto in un nuovo disastro finanziario globale. Invece la capitalizzazione complessiva di tutte le Borse del mondo si appresta a chiudere l'anno oltre quota 100 mila miliardi di dollari, con un guadagno su gennaio di ben 33 mila miliardi. Mai si era registrato, in così breve tempo, tanto ottimismo sui mercati. Ma ciò che più sorprende è che di bolla ancora non si parli, se non con una certa timidezza. Naturalmente non mancano i motivi di questo exploit, a cominciare dal fatto che la ripresa economica sta producendo profitti aziendali oltre le attese. Tuttavia, a incidere fortemente sull'umore degli investitori è, paradossalmente, il fattore che in partenza avrebbe dovuto provocare la catastrofe, cioè il Fattore T, ovvero Trump. La promessa di una drastica riforma fiscale a favore delle imprese Usa è infatti il carburante primo dell'ondata di ottimismo che ha portato Wall Street a livelli inimmaginabili solo un paio d'anni fa. Naturalmente hanno fatto la loro parte anche i tassi d'interesse, mai così bassi e persino negativi, che hanno spiazzato il mercato delle obbligazioni a favore della Borsa azionaria. Se a ciò aggiungiamo un'inflazione decisamente modesta a fronte di una buona crescita economica globale, ecco spiegato il fenomeno cui stiamo assistendo.

E il 2018? Al netto degli effetti della riforma fiscale americana, fortemente incline alle ragioni delle imprese - e perciò foriera di mutamenti anche in Europa - un metodo per individuare la direzione potenziale dei listini è il rapporto prezzo/utili atteso nei vari contesti produttivi. Tra l'altro, il multiplo che ne emerge è un buon termometro per misurare eventuali stati febbrili.

ESCLUSA LA BOLLA
Ebbene, le attuali proiezioni sia per la Borsa americana che per quelle europee, mentre da una parte confermano la buona predisposizione verso nuovi traguardi, dall'altra escludono il pericolo di una bolla soprattutto in Europa, dove il rapporto prezzo/utili si mantiene in un'area (attorno a 15) non pericolosa. Sempre, naturalmente, che le previsioni di profitto vengano confermate e che nulla turbi lo straordinario equilibrio tra macroeconomia, volatilità dei mercati e ottimismo generalizzato.
Quanto all'Italia, l'entusiasmo manifestato da alcuni commentatori per il 15% guadagnato nel 2017, denota una assai modesta conoscenza delle vicende di Piazza Affari. Questo recupero, pure rimarchevole perché avvenuto nell'arco dei 12 mesi, è infatti poca cosa rispetto alla distanza che ancora separa la nostra Borsa dai livelli del 2006, prima che la grande crisi avesse inizio. Per avere un'idea precisa, basti ricordare che nel 2007 il FtseMib, l'indice delle principali società quotate, toccò la vetta di 45.000 mentre oggi non arriva a quota 22.500. E' pur vero che nel frattempo l'indice Mediobanca Star, che comprende le società con capitalizzazione compresa tra 40 milioni e 1 miliardo, è più che raddoppiato (100 euro investiti nello Star nel 2006 oggi sarebbero 251 euro, mentre 100 euro investiti nell'indice generale oggi sarebbero 87 euro). E tuttavia se si fa media tra i due valori dentro la parentesi, considerando il peso relativo di ciascuno, siamo ancora lontani dai livelli di 11 anni fa. Nel frattempo le principali Borse mondiali, come si può constatare dai grafici in pagina, hanno raddoppiato o addirittura triplicato il loro valore.
Perché la Borsa italiana è rimasta così indietro? Per due ragioni, soprattutto. La prima è il grado di affidabilità del nostro Paese agli occhi dell'investitore estero: gli anni tribolati, sia politicamente che economicamente, che sono alle spalle non hanno certo giovato a rendere più credibili l'Italia e la sua offerta. La seconda ragione è più specifica, e riguarda la composizione del nostro listino azionario, da troppo tempo dominato da titoli bancari e finanziari che, con il loro trend negativo, oltre ad allontanare gli investitori hanno fortemente influenzato l'indice generale. Non è certo per caso che lo Star, composto in gran parte da titoli industriali, ha fatto molto meglio. La riprova di ciò è nell'ipotesi dei 100 euro investiti nel 2006: se allora avessimo acquistato un paniere di titoli assicurativi, oggi sarebbero 69 euro; con un paniere composto da titoli bancari, oggi quei 100 euro sarebbero ridotti a 31 euro, evidenziando un crollo del 70%.

MIOPIA DELLA POLITICA
Come si spiega questa caduta senza freni? Miopia dei governi che si sono succeduti in questo decennio e di una politica assente, che insieme non hanno colto i grandi cambiamenti che incombevano sul nostro sistema bancario. Sicché, con l'avvento di una Unione bancaria monca (senza cioè garanzia unica sui depositi) e gestita solo distrattamente da Roma, un sistema bancario considerato tra i più solidi all'inizio della crisi - come appunto quello italiano - ne è uscito a pezzi e con un'immagine tutt'altro che esaltante. Certo, vi hanno contribuito alcune vicende di mala gestio oggi all'attenzione della magistratura. Ma quanto hanno inciso le frequenti incursioni di una Vigilanza Bce incapace di valutare i singoli contesti e priva di una qualunque sensibilità in tema di comunicazione? Per non dire della decisione Bce di ridurre i tassi a zero: iniziativa lodevole se valutata come stimolo alla ripresa, decisamente negativa se vista con gli occhi delle banche prestatrici di denaro. Ha infatti azzerato una della principali fonti di profitto, riducendo a poco più di niente la redditività dei titoli di Stato (ciò vale anche per le assicurazioni) di cui sono tuttora gonfi i portafogli degli istituti.

Dunque, come sarà il 2018 per la Borsa italiana? Se l'indice fosse dominato dai comparti manufatturieri e del lusso, non esiteremmo a prefigurare un altro anno positivo. Soprattutto in previsione di un ruolo sempre maggiore dei Pir e di una loro estensione al settore immobiliare. Ma poiché la questione banche resterà sul tavolo ancora per qualche tempo - almeno fino a quando le sofferenze non avranno una dimensione più fisiologica - la prudenza è d'obbligo. Se tuttavia la congiuntura dovesse migliorare, tanto da convincere Mario Draghi che è giunto il tempo di mettere mano ai tassi, allora l'orizzonte si farebbe sicuramente più sereno.
 
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