Cristina Fazzi, medico di Enna: «Nel cuore dell'Africa salvo donne e bimbi. Ho preso la malaria 50 volte»

La donna ha fondato nella foresta dello Zambia un centro di assistenza sanitaria per madri e famiglie

Cristina Fazzi, medico di Enna: «Nel cuore dell'Africa salvo donne e bimbi. Ho preso la malaria 50 volte»
di Maria Lombardi
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Sabato 24 Dicembre 2022, 09:14 - Ultimo aggiornamento: 25 Febbraio, 13:04

«Adesso mi trovo nella foresta, a Silangwa, qui la linea non è buona. Possiamo risentirci tra qualche giorno, quando mi sposto a Ndola, in città?». Karìbu, come si dice laggiù. Benvenuti nell'Africa di Cristina Fazzi, nei villaggi dello Zambia dove il medico di Enna da 22 anni salva mamme, bambini, adolescenti. «Sono come il colibrì della favola africana che porta una piccola gocciolina d'acqua per spegnere l'incendio grandissimo. Faccio la mia parte, anche se minima: cerco di rendere migliore la vita delle persone che incontro».
Come è iniziata la sua avventura in Africa?
«Mi sono laureata in medicina e specializzata in chirurgia generale a Catania. Avevo un dottorato di ricerca al Policlinico. Una amica missionaria mi chiese se potevo sostituirla in un ambulatorio nello Zambia. Avevo dato la disponibilità per sei mesi, poi sono diventati altri sei, un anno. E non sono più tornata, un po' per scelta e un po' per caso. Venivo da un contesto elitario, in Sicilia, eravamo tanti medici allora. Qui ero l'unica dottoressa in un territorio grande come una regione italiana. Mi sembrò più giusto rimanere. Ora, a 57 anni, non so se e quando tornerò. Spero di continuare a rendermi utile qui».


Che situazione aveva trovato in Zambia?
«Nel 2000 qui morivano come mosche. Non avevo mai visto persone morire di fame, di sete, di malaria. Anche io ho preso la malaria quasi 50 volte, compresa quella cerebrale. Mi sembrava profondamente ingiusto che questa gente fosse costretta a vivere così. La carità passa anche dalla giustizia. Il diritto alla salute, alla casa, alla scuola dovrebbe essere universale. Così sono rimasta».
In che condizioni lavorava?
«All'inizio avevo un piccolo ambulatorio nella foresta.

Era una minuscola costruzione, c'era la camera da letto con cucina e bagno, e la verandina-ambulatorio. Non era facile per una donna bianca lavorare lì, farsi ascoltare. Per loro il capo è un uomo e una donna obbedisce. Se avessi assunto l'atteggiamento di chi dice: voi sbagliate tutto, si fa come dico io, non mi avrebbero accettata. Ho sempre cercato di farmi capire, con pazienza e rispetto, di condividere le decisione con chi lavora al mio fianco. Alcune cose è stato faticoso farle comprenderle, tanti erano ancora convinti che chi moriva di aids fosse vittima del maleficio dello stregone».

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Quali sono stati in seguito i suoi progetti?
«La ong che ho fondato in Zambia si chiama Twafwane association, in lingua locale bemba significa Lavoriamo insieme aiutandoci a vicenda. L'associazione opera tramite due progetti, il primo che ho avviato nella foresta, a Silangwa, è stato Mayo-mwana project, progetto madre-bambino. Il capo-tribù era così contento dell'attività dell'ambulatorio che mi regalò un terreno di 12 ettari per il centro sanitario dedicato alla salute delle donne e dei bambini. Con il tempo ci siamo ingranditi, adesso abbiamo anche una clinica mobile per vaccinazioni e visite ostetriche e una casa famiglia, a Ndola. Tante bambine vengono ancora fatte sposare a 12 anni, le donne picchiate e i bambini abusati. Non basta fare visite e dare medicine. Oltre all'assistenza, ci occupiamo anche di recuperare le vittime di violenza, di coinvolgere i bambini in programmi educativi e scolastici per evitare che vadano a lavorare. E poi c'è l'Ishuko project a Kantolomba, il centro sanitario per bambini e adolescenti. Facciamo circa 12mila visite l'anno»
Chi sostiene finanziariamente la sua attività?
«Il primo ambulatorio l'ho creato con i soldi raccolti dalle parrocchie di Enna. E poi sono arrivati gli aiuti delle famiglie, c'era chi ci donava anche 5 euro. Più siamo cresciuti e più abbiamo trovato sostegni, qui ci finanziano anche istituzioni locali».
Nel 2013 è stata nominata Cavaliere dell'Ordine al merito della Repubblica Italiana, la sua storia è diventata un libro Karìbu. Lo Zambia, una donna, una grande avventura (da poco uscito con Infinito edizioni), scritto insieme a Lidia Tilotta. Qui ha creato anche una grande famiglia.
«Ho un figlio adottivo, Joseph, ora diciottenne. E altri sette in affido. Joseph è stato portato nel mio ambulatorio in foresta appena nato. Pesava 800 grammi, la mamma era morta per emorragia. Non potevamo trasportarlo in città, ho costruito per lui una specie di incubatrice casalinga, una scatola di cartone con i buchi laterali riscaldata da bracieri. Mangiava ogni 30 minuti. L'ho salvato, ma la sua famiglia non voleva curarsene. Per evitare che finisse in orfanotrofio, prima l'ho preso in affido e poi l'ho adottato, qui possono farlo anche le persone non sposate. Dopo sono arrivati gli altri figli, tutti bambini non adottabili perché non sono doppi orfani. L'ultimo arrivato è Emanuel, di 4 anni. Loro sono i progetti più importanti della mia vita, la ragione per cui sono ancora qui e non torno in Italia».
 

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