«Pronto? Aiuto, mio marito è violento», storie di vittime salvate da una telefonata

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di Valentina Venturi
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Mercoledì 24 Novembre 2021, 12:05 - Ultimo aggiornamento: 21 Febbraio, 08:50

Aiuto. Alzare il telefono, mandare un messaggio, entrare in caserma o in commissariato, ma anche chiamare un’amica, confidarsi con la vicina, oppure chiudere il pugno della mano stringendo il pollice, l’sos di chi è esposto alla violenza.

In qualunque modo, chiedere aiuto, per spezzare il silenzio che troppo spesso è una gabbia per le vittime: le isola, le confonde e le espone a un rischio più grande. Il 63% di chi subisce violenza (secondo un’indagine della Commissione d’inchiesta del Senato sui femminicidi) non ne fa parola con nessuno, nemmeno con la mamma, la sorella o l’amica. Ma quel silenzio diventa un nemico in più. Eppure, bastava chiedere aiuto e non sarebbe andata a finire così, quante volte l’abbiamo sentito. C’è chi ce l’ha fatta, chi è riuscita a ribellarsi. Chiamando il numero antiviolenza e stalking, 15 il numero antiviolenza e stalking, 152, il servizio della presidenza del Consiglio dei ministri gestito da “Differenza donna ong”. O il “Telefono Rosa” (06 3751 8282) che attualmente gestisce quattro Centri antiviolenza, due Case rifugio, due Case di semiautonomia. Oppure rivolgendosi ad associazioni che aiutano le vittime di violenza. Donne come Angela, Alice, Louise, Sany e tantissime altre. Ecco alcune storie di chi ha chiesto aiuto e si è salvata. Donne minacciate con coltelli, ferite con schegge di vetro, sottomesse con schiaffi e botte. Ogni giorno 89 donne subiscono violenza. Molte (una vittima su 3) non hanno soldi, reddito zero, e hanno paura che il futuro possa essere peggio del presente. Non a caso, tra le misure presenti nel piano del governo per contrastare la violenza c’è il reddito di libertà, un sussidio fino a 400 euro al mese per le vittime in situazione di disagio economico.

LE STORIE

Sany: «Con il lockdown sempre più botte, sono fuggita»

Quando Sany (non è il suo vero nome) capisce che non può avere figli, il marito decide che è un oggetto inutile, di cui liberarsi. «Mi costringeva ad avere continui rapporti sessuali, non mi ribellavo perché avevo paura del peggio. Mi schiaffeggiava, più volte ha rotto i miei occhiali», racconta la donna, 30 anni, pachistana. «La certezza che non sarei rimasta incinta ha fatto esplodere ancora di più la violenza che già nei mesi del lockdown si era aggravata. Eravamo a casa noi due soli e la solitudine ha innescato in mio marito continue escalation di aggressività. Mi picchiava e insultava, perché la mia impossibilità a suo avviso lo disonorava. Mi trattava male, come un oggetto difettoso, da buttare via. Voleva restituirmi alla mia famiglia d’origine, come fossi un pacco, in modo da potermi cambiare con una donna diversa, che potesse dargli un erede». Quando il marito ad agosto di quest’anno acquista il biglietto aereo per riconsegnarla alla famiglia d’origine, Sany capisce che non c’è altra soluzione se non la fuga. «Grazie all’aiuto delle operatrici di “Telefono Rosa” riesco ad organizzare la fuga da casa e non mi faccio più trovare. L’ho denunciato ed è partito il codice rosso».

Louise: «Mi ha puntato un coltello al collo e mia suocera non si muoveva»

«Per lui ho abbandonato il mio Paese e la mia indipendenza economica. E mi sono ritrovata con un coltello puntato alla gola». La trentatreenne Louise (nome di fantasia) e il futuro aguzzino si conoscono e frequentano per 5 anni all’estero. Quando lui decide di tornare in Italia, a Roma, lei lo segue. In Italia rimane incinta, dopo una gravidanza difficile che la costringe all’immobilità, nasce la bambina. «Da quel momento iniziano insulti, aggressività e violenze verbali, anche in presenza di nostra figlia».

Louise a dicembre dello scorso anno capisce che rivuole la sua indipendenza, dice a lui che tra di loro è finita. «Non ha capito, ha iniziato ad insultarmi e a trattarmi male in un crescendo di violenza. Un giorno come un altro siamo in cucina e mentre gli spiego la mia sofferenza mi punta un coltello alla gola e mi minaccia di morte. La scena si svolge in presenza della nostra bambina e di mia suocera che la teneva in braccio. Non ci ha difese». Con l’aiuto di un’amica che contatta l’Associazione Risorse Donna e del Telefono Rosa, Louise riesce a trovare un rifugio sicuro e precisa: «Non dobbiamo accettare le loro scuse perché non esistono scuse valide per colpire una persona. Non si fa ad un animale, tanto meno a una donna».

Filippo: «La prendevo a calci, poi ho curato la mia rabbia»

«Ma era solo un calcio». Lui minimizza, non si rende conto cosa vuol dire per lei quel calcio. «Eravamo a letto e lei desiderava fare l’amore, mentre io non ne avevo minimamente voglia. Per farle capire che la sua richiesta in quel momento era sbagliata cosa potevo fare se non darle dei calci? Ero certo che almeno così l’avrebbe smessa di assillarmi. Per diverse notti mia moglie ha reagito male dopo che l’ho presa a calci nel letto e ha persino avuto paura di me. Ma io non volevo mica farle del male...». È il fotogramma di una pellicola di violenze che ha come denominatore comune il non essere in grado di esprimere il proprio disagio se non attraverso l’uso della violenza. «Esplodevo con scatti di rabbia sia di giorno che di notte. Non capendo come farla smettere reagivo male. Il problema non era ovviamente la sua richiesta ma il mio non essere in grado né di gestire la relazione e tanto meno di esprimere la mia richiesta di spazio. Il calcio è già una violenza ma l’ho capito solo dopo un lungo percorso». Filippo (il suo vero nome è un altro), 56 anni, piemontese, è uno di quei tanti uomini inconsapevole della gravità degli atti di violenza. A differenza di tanti, però, ha trovato il coraggio di interrogarsi sul perché della sua aggressività e di mettersi in discussione. È attraverso l’aiuto trovato nell’Associazione il “Cerchio degli Uomini” che ha potuto capire il suo errore e cambiare. «Bisogna lavorare partendo dalla base dell’iceberg del maschilismo – sottolinea Domenico Matarozzo, attivista dell’Associazione – perché è qui che risiedono casi sintomatici che sembrano leggeri ma al contrario racchiudono e nascondono un modo di pensare sbagliato. Quell’uomo esplodeva con tutta quella rabbia senza capire».

Angela: «I sogni infranti, l'ho fermato per mia figlia»

Angela vive in provincia di Lecce. Ha gli occhi chiari pieni di coraggio. «Sono stata al mare, insieme a mia figlia. Abbiamo osservato l’incanto delle onde. Una sensazione di pace, serenità nel cuore, pace nell’anima». Sarà difficile per Angela dimenticare dieci anni di violenze fisiche, psicologiche, umiliazioni. «Quando l’ho conosciuto era gentile, premuroso. I suoi occhi addosso mi facevano sentire una regina, in poco tempo invece diventai la sua schiava. Avevo poco più di 20 anni – racconta - credevo nell’amore. Invece no. Iniziò allontanandomi dalle amiche e dalla mia famiglia. Dovevo solo restare in casa, chiusa. Qualcosa sembrava potesse cambiare con l’arrivo di mia figlia. Ma non fu così». Lui iniziò ad essere sempre più violento. Ogni giorno schiaffi, pugni, pedinamenti, scenate di gelosia. «I calci improvvisi arrivavano come pugnalate al petto. Avevo paura, per me, per mia figlia. Aveva annientato il mio essere persona, donna, madre. Ore e ore in camera con la finestra chiusa, a piangere di nascosto. Amavo più quel mostro di me stessa». Poi qualcosa cambiò. «Ci incontrammo un giorno perché avevo necessità di parlargli. Ore tremende, per la violenza subita, in auto. Mi urlava contro, mi diceva che ero una prostituta, un avanzo della società, che sarei morta e nessuno se ne sarebbe accorto». Angela scappò via. L’agente di polizia quando la vide per l’ennesima volta in ospedale le chiese, guardandola con dolcezza negli occhi «se fosse caduta ancora una volta». Angela decise di respirare profondamente e di denunciare il suo ex compagno. «Lo rifarei ancora, per me, per mia figlia. Per i sogni maltrattati e per il diritto alla vita».

(di Francesca Pastore)

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