Parità di stipendio tra uomini e donne, arriva la direttiva dell'Unione europea: ecco le sanzioni

L'intervista all'europarlamentare Kira Marie Peter-Hansen: i Paesi Ue avranno tre anni al massimo per recepire la direttiva

Kira Marie Peter-Hansen, europarlamentare danese dei Verdi
di Gabriele Rosana
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Mercoledì 24 Maggio 2023, 14:53 - Ultimo aggiornamento: 25 Maggio, 07:38

Ci sono voluti 64 anni per mantenere fede al principio della parità retributiva inserito già nei Trattati di Roma del 1957.

Ma adesso l’Unione europea è determinata a fare sul serio e a mandare in soffitta il gender pay gap, cioè la differenza media tra i salari orari lordi percepiti dagli uomini e dalle donne. Testa d’ariete è la direttiva sulla trasparenza retributiva, che dovrà ora essere recepita dai Ventisette, e che impone vincoli precisi sulla determinazione del livello di paga indipendentemente dal genere, tanto nel settore privato quanto in quello pubblico, abolisce il segreto salariale, prevede, in collaborazione con le parti sociali, una procedura d’allerta in caso di divario retributivo e pure sanzioni per i datori di lavoro inadempienti. Approvata definitivamente dagli europarlamentari e dai governi riuniti nel Consiglio dopo due anni di lavoro, la direttiva costituisce un nuovo pilastro dell’ampia normativa sociale Ue. O, meglio, la prima casella per imprimere un cambio di passo. Oggi, infatti, nell’Unione europea, a parità di mansioni, secondo la fotografia scattata da Eurostat, le donne guadagnano in media il 13% in meno degli uomini, un dato che a livello globale sale al 21% (e per colmare il quale l’Onu calcola serviranno 300 anni). L’Italia fa meglio del valore aggregato Ue, attestandosi al 5%, lontana dai picchi a due cifre che si registrano invece in Paesi di norma molto avanzati in materia di uguaglianza di genere, come Estonia (20,5%), Austria (18,8%), Germania (17,6%), Francia (15,4%) e Danimarca (14,2%). Ma la difformità dipende spesso dalle modalità di raccolta dati. «Avere regole e statistiche armonizzate nell’Ue ci aiuterà a capire di più del fenomeno e a comprendere la ragione di queste differenze», dice a MoltoDonna Kira Marie Peter-Hansen, europarlamentare danese dei Verdi che, insieme alla collega olandese Samira Rafaela, liberale, è stata relatrice del provvedimento per l’Eurocamera. Con i suoi 25 anni, Peter-Hansen vanta il primato di eurodeputata più giovane di sempre («Ma spero di cedere il record, alle elezioni Ue dell’anno prossimo!», confida).

Come si è arrivati alla stretta Ue?

«Il lavoro delle donne è, storicamente, sottovalutato e sottopagato.

Adesso facciamo un passo importante per garantire la parità di retribuzione per un lavoro di pari valore. A cominciare dalla trasparenza sugli stipendi. Aziende e pubbliche amministrazioni con più di 100 dipendenti (erano 250 nella proposta della Commissione, ma in Parlamento abbiamo voluto ampliare il campo di applicazione) dovranno redigere dei report obbligatori periodici sul livello delle retribuzioni, sia in generale sia in settori specifici. Più informazioni abbiamo, più capillare è il monitoraggio da parte delle autorità statistiche, più saremo in grado di colmare il divario salariale di genere. Ma questo non è che uno degli strumenti a nostra disposizione».

Quali sono gli altri?

«C’è già la direttiva sull’equilibrio tra attività professionale e vita familiare, ma non tutte sono misure su cui l’Europa può dettare la linea. Guardiamo, ad esempio, alla dinamica dei ruoli e a quello che si chiama mercato del lavoro segregato per genere. Cioè la differenziazione delle mansioni e responsabilità tra uomini e donne e la più complessiva svalutazione del lavoro femminile, questioni da affrontare con forza».

Si aspetta effetti positivi per chi desidera avere figli?

«Sì. La trasparenza retributiva aiuta, ad esempio, a stimare l’entità dell’aumento di paga al rientro dal congedo parentale, fenomeno che è più comune negli uomini anziché nelle donne, le quali spesso finiscono, semmai, per rimanere indietro nella carriera».

La direttiva prevede anche delle contromisure.

«Se il report periodico evidenzia un gender pay gap di almeno il 5%, i datori di lavoro avranno sei mesi per analizzare il problema, alla luce della composizione della forza lavoro, e porvi rimedio, ripianando il divario, ad esempio, negli stipendi e nei bonus, in cooperazione con le rappresentanze sindacali. Sulla scelta degli strumenti in concreto per intervenire, lasciamo però ampia libertà alle singole imprese».

Cosa succede ora?

«I Paesi Ue avranno tre anni al massimo per recepire la direttiva, ma noi ci aspettiamo che facciano molto più in fretta. E potranno pure introdurre disposizioni migliorative, come accade già in Francia e Spagna, che applicano le regole già alle aziende con almeno 50 lavoratori».

Un risultato storico negoziato da una squadra di quasi solo giovani donne. Pensa abbia avuto un ruolo?

«Decisamente sì. Gli uomini possono essere ottimi alleati, ma sappiamo anche che le donne tendono a preoccuparsi delle donne. Averne sempre di più attive in politica e in posizioni decisionali ha un impatto positivo sui nostri diritti».

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