Donne e finanza, più manager e investitrici. L'economista Alemanni: ma le discriminazione frenano carriere e guadagni

C'è l'opportunità di 700 miliardi di euro di guadagni con servizi dedicati alle clienti

Donne e finanza, più manager e investitrici. L'economista Alemanni: ma le discriminazione frenano carriere e guadagni
di Maria Lombardi
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Mercoledì 22 Febbraio 2023, 14:14 - Ultimo aggiornamento: 21 Marzo, 14:20

Donne di denari, è l’ora di mettersi in gioco, alzare la posta e pretendere più attenzione.

Alla faccia di quanti ancora pensano che la finanza non sia affar loro. Lo è, eccome, su tutti i fronti. Cresce la schiera delle manager, anche se ancora troppo lentamente. E aumenta il numero di investitrici e risparmiatrici, di quante vogliono gestire al meglio i loro soldi e reclamano servizi su misura. Tante in gioco - e in carriera - lo sono già e regalano all’Italia un primato in Europa: siamo il Paese con la più alta rappresentanza femminile nei board finanziari, il 47% per le quotate. Tutto bene? Per niente, perché salendo ai piani alti, quelli del top management, le donne quasi spariscono: nelle società finanziarie italiane quotate le donne al timone con il grado di ad sono solo il 2%, nelle banche solo l’1%.

IL GRADINO ROTTO

Colpa di quel gradino rotto che ancora si incontra nella scalata ai ruoli di comando. Ma che non ha fermato la corsa di manager italiane che ce l’hanno fatta ad arrivare ai vertici. Come Paola Pietrafesa, ad e direttore generale di Allianz Bank Financial Advisors, la prima donna a guidare una banca attiva nel mondo della consulenza finanziaria. O come Alberica Brivio Sforza, da un anno managing director in Italia della banca svizzera Lombard Odier (che gestisce 309 miliardi di euro di asset). E ancora, Cinzia Tagliabue, ceo di Amundi SGR Italy, o Manuela D’Onofrio, responsabile Group Investments and Solutions in UniCredit. Ancora eccezioni, purtroppo. Abbiamo dovuto aspettare il 2021 per vedere la prima donna italiana al governo di una grande banca sistemica, Elena Patrizia Goitini, ad di Bnl Bnp Paribas. E se allarghiamo lo sguardo al mondo, non va meglio. Tra i ruoli senior nelle società di venture capital (che gestiscono investimenti per start up e quindi più a rischio) solo il 4,9% dei partner è rappresentato da donne. Stessa storia nel settore bancario, dove le manager nelle posizioni di maggiore responsabilità (le Csuite) sono meno di un terzo. E solo il 5% delle “poltrone” di ceo negli istituti di servizi finanziari è occupato da donne. Se fossero di più, tante altre farebbero carriera: si è visto che l’arrivo di una donna alla Csuite ha portato altre tre a entrare in ruoli dirigenziali. I segnali di crescita ci sono, come indica l’ultimo rapporto “Women in Financial Services”, con il 23% di rappresentanza femminile nei consigli di amministrazione.

Ma si va lenti. Il fatto è che resistono ancora discriminazioni non intenzionali, come ha sottolineato l’economista comportamentale di Harvard Iris Bohnet, intervenuta qualche giorno fa alla Borsa di Milano, al sesto workshop della Herbert Simon Society dedicato alle donne in finanza. «Nonostante la consapevolezza raggiunta da tutte le società che queste disparità non debbano più esistere, ci sono automatismi che danneggiano le donne in ingresso e soprattutto nella progressione della carriera», spiega Barbara Alemanni, professore ordinario di Economia degli intermediari finanziari all’università di Genova e tra gli organizzatori dell’evento “6th Befairly-Behavioural Financial Regulation and Policy”. Si continua ad offrire maggiori opportunità agli uomini e a pagarli di più, pur nella convinzione di non avere alcun tipo di pregiudizi. Eppure i “bias” ci sono e si manifestano nelle assunzioni e nelle promozioni. «Le discriminazioni riguardano anche le donne clienti del sistema finanziario. Ci sono numeri che dimostrano come siano tendenzialmente sotto-servite o servite male. Le imprenditrici ricevono meno credito dei colleghi uomini dal sistema bancario sempre per via dei pregiudizi. Uno studio fatto in Germania mostra che alle donne investitrici vengono venduti prodotti finanziari più costosi e meno performanti. Eliminare questi bias porterebbe un grande vantaggio ad entrambi le parti: maggiori ricavi per il sistema finanziario, più protezione e inclusione per le clienti. Un’attenzione alle donne che si sta facendo sempre più strada nei servizi di gestione del patrimonio». Puntare su di loro è una grande occasione di crescita per il settore finanziario. Un rapporto McKinsey ha calcolato che ci sarebbe un’opportunità di guadagno di 700 miliardi di dollari se si offrissero un miglior servizio e consulenze su misura per le sempre più numerose investitrici: ora controllano un terzo del totale degli asset in gestione, arriveranno al 45% entro il 2030. C’è molta strada da fare, basti pensare che quasi quattro donne su dieci non hanno un reddito personale e un conto corrente.

LA CULTURA

«I numeri ci dicono che le donne hanno una cultura finanziaria più bassa degli uomini e minore fiducia nelle possibilità del mondo finanziario», aggiunge la professoressa Alemanni. «Ma c’è anche una questione culturale. Pensiamo al linguaggio: in finanza si usano termini di un vissuto tipicamente maschile, presi in prestito da campi di battaglia e sfide fisiche. Bisogna superare gli schemi che instillano una divisione dei ruoli, con le donne impegnate a gestire piccoli budget e gli uomini a far crescere il denaro». Il rapporto tra donne e denaro è ancora culturalmente problematico. Parlarne è considerato volgare e poco educato. Un tabù che l’economista Azzurra Rinaldi, direttrice della School of gender economics alla Sapienza, dove insegna Economia politica, prova a demolire nel suo libro “Le signore non parlano di soldi” (Fabbri editori). «Bisogna normalizzare la narrazione sui soldi. Parliamone tra di noi - sostiene l’economista - entriamo in confidenza con il denaro e con il potere. I soldi sono alla base del processo di empowerment». 

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