Alessandra De Stefano, prima donna alla guida di Rai Sport: «Come al Giro d'Italia, vale la bravura non il genere»

Alessandra De Stefano, prima donna alla guida di Rai Sport: «Come al Giro d'Italia, vale la bravura non il genere»
di Andrea Sorrentino
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Mercoledì 22 Dicembre 2021, 15:11 - Ultimo aggiornamento: 21 Febbraio, 16:23

Preferisce che la chiamino “direttore” e non direttrice: non è da questi particolari che si giudica una donna, o le sue capacità professionali.

Del resto sulle differenze di genere il nuovo direttore di Rai Sport Alessandra De Stefano, 55 anni, prima signora a ricoprire il ruolo, studi di arte poi dal 1992 in Rai, ha il suo punto di vista. Scaturisce dalle esperienze della sua famiglia, in cui le donne hanno avuto un certo peso, altro che quote rosa: «Otto figli, di cui sette femmine. Mia madre era del 1924, aveva fatto la Resistenza al fianco di mia nonna, una che per le Quattro Giornate di Napoli vendette l’oro e i mobili di casa. Come tutte le ragazze della guerra, mia madre non aveva avuto giovinezza, il concetto di femminilità abbinato alla debolezza non esisteva, semmai il contrario. È stata una donna decisionista e femminista ante litteram: stabilì che ci saremmo tutti trasferiti da Napoli a Roma senza consultare mio padre. L’ho persa presto, io avevo 26 anni, lei malata da quando ne avevo 5».

Un’esperienza piuttosto formativa.

«Capisce perché quando mi chiedono se ho paura a guidare Raisport, coi suoi 115 giornalisti, rido? Potrebbero essere pure 380… E non ho nemmeno paura di perdere il ruolo di direttore: se non sei attaccato alle cose, che ti possono togliere? Resterei per la mia storia individuale: è chi sei, che ti dà qualcosa. Noi non “siamo” giornalisti, noi “facciamo” i giornalisti, un mestiere come il panettiere o la manicure. Se pensi di “essere” un giornalista, perdi il contatto con la realtà».

Ha lavorato una vita sul ciclismo, mondo maschile e maschilista: cosa le ha trasmesso?

«All’esame di Stato da giornalista metterei l’obbligo di seguire un Giro d’Italia. A parte che lo sport filosoficamente ti dà risposte, mette ordine al caos e alle priorità: ci sono sempre un primo, un secondo e un terzo… Ma il ciclismo ha un’umanità pazzesca che gli gravita intorno, ti senti piccola come in una cattedrale gotica: tra i ciclisti ti senti minuscola, ci sono le mille storie degli atleti, la pioggia, il freddo, la neve e il sole… il Giro è metafora della vita. Nel ciclismo ho incontrato molti uomini e pochi maschi. Io unica donna? Quando segui un allenamento prima della Parigi-Roubaix incastrata nel bagagliaio della macchina con l’operatore e il cavalletto, e dopo due ore scendi e sei coperta di polvere e di fango come loro… beh lì non esistono più la donna e l’uomo, esiste che siete andati tutti sul pavé».

Da direttore donna, si è detto subito che darà più spazio alle giornaliste: possibile?

«A parte che su 115 giornalisti le donne saranno al massimo 30, in assoluto non credo alle quote rosa: sono la negazione di talento e merito.

Se sei brava o bravo, il genere non conta. Il maschilismo è da combattere antropologicamente. La fierezza di essere un individuo, al di là del sesso, deve far parte della tua forma mentis. Non esiste la diversità, semmai la diversità è un valore. E poi, cosa vuol dire essere diverso? Diverso da cosa? Vorrei valorizzare il canale 57, che trasmette sport come nessun altro canale in Europa ma lo sanno in pochi. Conosco bene la redazione: li ho visti arrivare tutti dopo di me, tranne 3 o 4. È sbagliato un discorso legato al genere, le giornaliste avranno lo spazio che è giusto abbiano, non in quanto donne, altrimenti farei loro un torto. Dobbiamo forse colmare un vuoto? Semmai riempiamolo con la professionalità, e cambiando mentalità. Andrà in onda chi sa andare in onda».

È vero che le giornaliste tv vengono scelte per l’avvenenza?

«Chiedo alle donne di non accettare il termine “decorativa”, orrendo. Negli anni 90, quando ho iniziato io, le ragazze dovevano essere decorative. La bellezza è un valore e salverà il mondo, diceva Dostoevskij, ma l’aspetto fisico è un cliché e i cliché vanno combattuti socialmente. La massificazione porta a modelli finti. Ci vogliono verità e autenticità, e non è detto che passino per la bellezza. Conta la competenza: se poi sei bella o bello, meglio. Bisogna lavorare sulla mentalità».

Poco tempo fa un’inviata di Toscana Tv ha ricevuto una molestia in diretta: le è mai capitato?

«Per fortuna no. Mi fosse accaduto, avrei detto: scusate, devo prendere a schiaffi questo cretino. È intollerabile l’impunità che c’è in queste cose. E mi ha messo tristezza il fatto che la collega abbia detto: “Forse quel giorno dovevo mettermi dei jeans meno stretti”. Non è giusto. Ogni volta che metterà dei jeans, ci penserà. Molti anni fa, un caporedattore che magari aveva delle mire su di me, quando capì che non c’erano speranze, per colpirmi disse “hai una voce che fa schifo”, e mi fece venire il complesso. Ma quella era la mia diversità, la mia particolarità. Non era sbagliata la mia voce, e non erano sbagliati i jeans della collega: era, ed è, sbagliato il contesto. Dobbiamo combattere facendo sempre meglio il nostro lavoro. Magari indossando stivali a punta, per prendere a calci chi si azzardasse a fare il cretino».

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