Polo Sud: «Così cerco tracce del Big Bang». Ecco Sofia Fatigoni, l'unica scienziata italiana alla missione in Antartide per il progetto "Bicep"

Polo Sud: «Così cerco tracce del Big Bang». Ecco Sofia Fatigoni, l'unica scienziata italiana alla missione in Antartide per il progetto "Bicep"
di Maria Lombardi
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Sabato 25 Marzo 2023, 06:29 - Ultimo aggiornamento: 1 Aprile, 16:24

Meno quaranta gradi sotto zero, ed è estate. A tremila metri d'altezza anche il respiro è una fatica. Ogni ora è la stessa ora, sempre mezzogiorno, al South Pole Station. Un deserto di ghiaccio, «il posto più scomodo del mondo», l'aria secca e rarefatta, si cammina con dieci chili di attrezzatura addosso per difendersi dal gelo (temperatura record: meno 88 gradi), si mangiano solo surgelati, ci si connette a internet appena due, tre ore al giorno. Sofia Fatigoni, astrofisica perugina di 29 anni, è rimasta lì due mesi, sul finire del 2022, la sua seconda missione in Antartide, unica scienziata italiana della spedizione.
E ora dove si trova?
«Adesso sono tornata al California Institute of Technology, a Pasadena, vicino Los Angeles, dove mi sono trasferita per seguire l'esperimento del Bicep Array Telescope, il telescopio che abbiamo installato in Antartide».
Obiettivo della missione?
«Riuscire ad osservare la polarizzazione della radiazione cosmica di fondo, in un certo modo l'eco del big bang, la luce più antica che possiamo vedere nell'universo. Più indietro di così non si può andare. La polarizzazione è la direzione in cui oscilla il campo elettromagnetico in questa onda. La studiamo perché questa radiazione ci dà l'immagine di come era l'universo quando è stata prodotta. Più lontano guardiamo con un telescopio, più guardiamo indietro nel tempo. Nel caso di questa radiazione lontana 13,5 miliardi di anni luce, vediamo come questa era 13,5 miliardi di anni fa, subito dopo il Big Bang».
Perché al Polo Sud?
«È il miglior posto al mondo per l'osservazione di microonde. Il segnale che stiamo cercando è debolissimo, per intercettarlo ci serve, oltre a un telescopio estremamente sensibile, un'atmosfera pulita e asciutta, senza vapore acqueo e il più lontano possibile da sorgenti di rumore e interferenze».

 


Cosa vuole dimostrare la vostra osservazione?
«Siamo qui per testare la teoria dell'inflazione cosmologica proposta all'inizio degli anni Ottanta. Secondo il fisico americano Alan Guth, l'universo nei primissimi istanti si è espanso ad un'accelerazione esponenziale per un periodo di tempo brevissimo, trasformandosi da un puntino al volume che conosciamo oggi. Questa teoria predice che l'universo primordiale fosse pieno di onde gravitazionali che avrebbero lasciato un'impronta precisa nella polarizzazione della radiazione cosmica di fondo. Trovare segnali dell'impronta è una scoperta sensazionale, da Nobel. Ma non trovare alcuna traccia sarebbe altrettanto interessante, perché si metterebbe in discussione tutta la teoria e bisognerebbe cercare le origini dell'universo in altre direzioni».
Come si arriva al Polo Sud?
«È complicatissimo. Si arriva in Nuova Zelanda, a Christchurch, con voli commerciali. Dall'Antartic Center si vola sulla costa dell'Antartide con aerei militari. Si resta lì alcuni giorni per ambientarsi al freddo e poi si raggiunge il Polo Sud con un altro aereo militare. Il problema è che per volare, laggiù, le condizioni meteo devo essere perfette e si aspetta giorni e giorni prima di partire».
E la vita in Antartide?
«Molto dura e impegnativa, anche dal punto di vista fisico. Prima della missione si fanno tantissimi test medici. Si lavora 12 ore al giorno, ci si deve abituare all'altitudine, all'assenza del ciclo giorno, notte e alla temperatura. Si vive fuori dal mondo, lontano da tutti, la connessione a internet è solo due, tre ore al giorno. È molto straniante, un sacrificio totalizzante. Stai in laboratorio fino alle due di notte, e se le cose nel frattempo non funzionano devi aspettare un anno per intervenire, finché non torni al Polo Sud».

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Una delle poche donne in missione in Antartide?
«Il Polo Sud è un ambiente militare, quasi completamente maschile. Sono l'unica scienziata italiana della spedizione. La seconda che sia mai andata a lavorare proprio al Polo Sud».
Quale è il suo ruolo nel progetto?
«Ho progettato e costruito una parte del telescopio che abbiamo installato. Tornerò in Antartide per la terza volta a novembre 2023».
Come è nata la tua passione per l'astrofisica?
«Da bambina volevo fare l'astronauta sono sempre stata affascinata dalle stelle. Con mio nonno costruivo circuiti in garage, lui mi ha insegnato a fare le saldature. Ho fatto il liceo classico a Perugia, la mia città. E ho studiato Fisica e Astrofisica alla Sapienza di Roma, dove ho completato triennale e magistrale».
Poi hai lasciato l'Italia.
«Per il dottorato mi sono trasferita alla University of British Columbia, a Vancouver, e adesso per il post doc sono in California, dove proseguo il mio lavoro al telescopio come ricercatrice della Caltech».
Ancora poche le astrofisiche?
«Quando mi sono iscritta all'università le studentesse eravamo in minoranza, ma andando avanti nel percorso sempre di meno. Le cose stanno cambiando, mia sorella che si è appena iscritta a Fisica ha molte più colleghe di quante ne avessi io.
 

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