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› COVID

«Noi, future mamme al tempo del Covid: così sole e in ansia»

Donna > Mind The Gap > News
Sabato 7 Novembre 2020 di Costanza Ignazzi

In mezzo all'impennata dei contagi, alle nuove restrizioni anti-Covid e ai lockdown qualcuno combatte una battaglia silenziosa fatta di speranza, una buona dose di pazienza e, soprattutto, amore in grandi quantità. Incinte ai tempi del Coronavirus: mentre gli esperti dibattono sul calo delle nascite provocato o meno dalla pandemia c'è chi ogni giorno vive sulla propria pelle un'incertezza amplificata. Mettere al mondo un bambino, contrariamente al messaggio imperante, non è proprio una passeggiata di piacere. E allo stress provocato dal corpo che cambia, dai controlli medici e dall'organizzazione del futuro (fasciatoi, tiralatte e altri oggetti misteriosi) il Covid ha aggiunto una dose inedita di ansia e difficoltà logistiche per noi future mamme.

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La prima ondata

 Il lockdown dello scorso marzo è stato un fulmine a ciel sereno per chi era in attesa e si è trovata di colpo in quarantena senza nessuna certezza né riguardo alle visite né al parto in arrivo. Chi ne aveva la possibilità si è rivolta a strutture private, le altre hanno dovuto aspettare e rimandare anche i controlli di routine. «Ho fatto il test di gravidanza a marzo, poco prima del lockdown racconta Valeria per la prima ecografia ho dovuto attendere tre mesi».
Un percorso accidentato che l'allerta contagi ha impedito di condividere con compagni e familiari, visto che molti ospedali e cliniche hanno vietato l'accesso agli accompagnatori.

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Il ricovero

«Sono stata ricoverata due mesi per rischio parto prematuro, ero sola e potevo vedere mio marito un'ora al giorno - racconta Giulia, 29 anni, di Como - è stato davvero pesante, ho dovuto trovare la forza dentro di me senza poter contare su nessun altro». Secondo la Società italiana di pediatria uno degli elementi di maggiore criticità per chi ha affrontato la gravidanza durante la pandemia è stata, oltre alla maggiore ansia, proprio la limitazione della presenza del padre. In base all'indagine condotta tra maggio e giugno presso il reparto di Neonatologia dell'ospedale San Carlo Borromeo di Milano sensazioni di solitudine, insicurezza e abbandono sono state all'ordine del giorno per le partorienti. I medici hanno cercato di rimediare come potevano. «Il ruolo del padre è fondamentale per dare forza e tranquillità - spiega Luca Cipriano, ginecologo e responsabile del blocco parto presso la Casa di Cura Santa Famiglia di Roma - Ma in un primo momento non sapevamo come comportarci: i pazienti erano di colpo diventati veicolo di contagio». Fortunatamente in soccorso è arrivata la tecnologia: «Ci è capitato di fare parti in videochiamata perché papà e nonni potessero assistere», racconta il ginecologo. Anche se qualcuna è stata ben felice di non essere invasa da stuoli di parenti per le visite post-parto di rito, anzi, ha approfittato volentieri della scusa servita su un piatto d'argento dalle circostanze: «Scusate ma c'è il Covid, ci vediamo quando sarà tutto finito».
Ora, con la seconda ondata della pandemia, sono tutti più preparati, partorienti e dottori: «I test e lo screening ci permettono di essere più sicuri e la sala parto è abbastanza grande da assicurare il distanziamento sociale», spiega Cipriano. Qualche criticità potrebbe ancora sorgere in caso di bimbi che decidessero di arrivare prima della data stabilita: a quel punto sarà il fortunato papà a doversi ingegnare per fare in tempi rapidi il tampone che gli permetterà di assistere al lieto evento.
La preoccupazione numero uno per chi sta affrontando una gravidanza resta però il pericolo di contagio. Secondo un report del Centro per il controllo e la prevenzione delle malattie degli Usa le donne incinte hanno più probabilità di contrarre il Covid in modo grave e morire: il rischio di parto prematuro è invece in agguato per il 12,9%.
Ma cosa succede se la futura mamma si rivela positiva al virus? Anche su questo tema la confusione è parecchia. Lo sa bene Nunzia, 32 anni, della provincia di Napoli, risultata positiva il 26 agosto, alla trentunesima settimana di gravidanza. «Sono sempre stata asintomatica racconta dalla Asl mi dicevano che mi avrebbero mandato un ginecologo, che mi avrebbero offerto assistenza a domicilio: solo parole». Così Nunzia ha dovuto aspettare il 25 settembre, a due mesi dall'ultima visita, per sapere che il bimbo che portava in grembo stava bene. Peccato che il seguito sia stato altrettanto difficile. «Anche dopo l'attestato di guarigione tutto è stato una battaglia - racconta - domanda di maternità, visite, lo stesso ginecologo mi trattava come una lebbrosa». Neppure per Veronica, 31 anni, di Budrio, le cose sono andate proprio come previsto: rimandata a casa per continuare il travaglio con maggiore serenità (e senza obbligo di mascherina), non ha fatto in tempo a tornare in ospedale e ha partorito il suo Davide in salotto, con l'aiuto del marito al telefono con il 118 e la figlia maggiore, tre anni, addormentata sul divano.

 

I progetti

Tutto ciò rischia di compromettere seriamente la natalità futura, come prevede l'Istat. A influire pesantemente, sottolinea la psicoterapeuta Maria Beatrice Toro, autrice di Oltre la pandemia. Come superare (bene) ansia, rabbia e stress è la cosiddetta pandemic fatigue, che ha colpito in misura maggiore chi ha già bambini. «La prima cosa a saltare - spiega - sono stati i progetti di fare il secondo figlio. E chi vorrebbe mettere in cantiere il primogenito sconta una precarietà dovuta al cambiamento, causa virus, dei rapporti familiari». In altre parole, non si può più contare sui nonni per occuparsi dei nipoti. «La vita però deve continuare - aggiunge Toro - e un figlio può essere un'assunzione di responsabilità, una decisione di cui siamo padroni in un momento totalmente fuori dal nostro controllo. La pandemia in realtà è una grande occasione per mettere al primo posto le cose che contano davvero».
 

 

 

 

Ultimo aggiornamento: 24 Novembre, 16:16 © RIPRODUZIONE RISERVATA

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