L'artista Francesca Fini: «Nel mondo della videoarte una forte predominanza maschile»

Francesca Fini
di Valentina Venturi
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Sabato 7 Maggio 2022, 12:04 - Ultimo aggiornamento: 16:13

Alla voce “cyber-performance” l’enciclopedia Treccani come unica donna nomina l’italiana Francesca Fini. Un attestato di identificazione professionale indiscutibile per la romana classe 1970. Artista interdisciplinare riconosciuta a livello internazionale, Fini negli anni ha presentato il suo lavoro al Museo MACRO e MAXXI di Roma, al Guggenheim di Bilbao, al Schusev State Museum of Architecture di Mosca, alle Tese dell'Arsenale di Venezia, al Georgia Institute of Technology e in numerosi ambiti accademici nazionali e internazionali. In Italia, per la precisione ad Aosta, insieme a Marco Chenevier organizza la sesta edizione di T*Danse – Danse et technologie, il Festival internazionale della Nuova Danza.

Ma cos'è la cyber performance? 

«Una performance in cui l’elemento tecnologico è parte integrante, un’amplificazione del corpo. La tecnologia non è solo uno strumento, quanto qualcosa che viene incorporato nella performance». 

In Italia è l’unica rappresentante? 

«Giacomo Verde, scomparso due anni fa, è stato un grande esponente di questo linguaggio. Possiamo metterci dentro anche il gruppo di Studio Azzurro con le sue installazioni e Muta Imago. Sicuramente, posso dire di essere l’unica donna; magari per mia ignoranza possono sfuggire altre rappresentanti della cyber performance, ma mi sentirei di dire che è così: sono l’unica donna che fa queste cose e nel modo in cui le faccio io».

Il mondo della danza è respingente o accogliente verso le donne? 

«La danza è un ambiente assolutamente femminile avendo tutte le caratteristiche della femminilità, basandosi sul corpo; gli uomini hanno molti più problemi a mettersi in relazione con il proprio corpo. La donna, custode dell’elemento biologico, fa più facilità». 

Mentre la videoarte?

«È molto meno accogliente l’arte contemporanea, quella dell’installazione e della videoarte, dove c’è una forte predominanza maschile e quello dell’immaginario è quello di un minimalismo depotenziato, assolutamente maschile e per niente femminile. Lì è più difficile imporsi. La performance, invece, è un ambito femminile».

Cosa significa essere una performance artist intermediale? 

«Vuol dire che il proprio lavoro si sviluppa attraverso diversi media, che diventano strumenti non per implementare o amplificare il proprio concept come nel multimedia in cui i media si accumulano, ma per trasformarlo. Quando parlo di intermedia significa che esploro attivamente questi mezzi, diventando elementi capaci di modificare il mio modo di fare arte». 

Qual è il suo percorso artistico?

«Vengo dalla performance art, che è un linguaggio effimero, della contingenza, dell’hic et nunc: vive teoricamente solo del momento in cui viene agita la performance e solo per i presenti che fanno parte di quell’esperienza». 

Aggiungere la videoperformance cosa ha comportato? 

«Qui compio un processo radicale nel mettere insieme due linguaggi di fatto incompatibili: uno vive nell’istante, l’altro nell’archiviazione. Per farlo uso un approccio intermediale, cioè analizzo questi due linguaggi e li mescolo per far nascere e crescere un nuovo linguaggio, nato con delle prerogative diverse». 

Può descrivere il suo lavoro?

«In una videoperformance, che è una performance agita esclusivamente per la videocamera e non per un pubblico presente, creo un set e una serie di strumenti propri del film making e li sfrutto al massimo. La mia azione è autentica perché – almeno secondo la regola che mi sono data – viene agita per la prima volta davanti alla videocamera senza prove». 

Poi passa al montaggio?

«Il materiale viene lavorato nell’editing e diventa un’opera videoperformativa, in cui l’autenticità e l’immediatezza dell’azione vengono garantite dal fatto che io non faccio prove, ma agisco dall’inizio alla fine senza fermarmi, qualsiasi sia il risultato, per l’occhio gelido della videocamera che mi osserva senza giudizio. 

Sono progetti cinematografici?

«Certo. Non sono semplici “documentazioni” con una videocamera fissa o un punto di vista unico o una luce naturale, sono delle opere cinematografiche in cui la luce è perfetta in ogni inquadratura».

Come ci riesce? 

«Allestisco uno spazio quasi “sferico”, dove ho tante videocamere puntate sulla scena e la luce è studiata in modo tale che io sia illuminata perfettamente da ogni punto di vista per ciascuna telecamera, e microfoni sparsi nello spazio che registrano il suono da qualsiasi punto. La preparazione è metodica nel setting, lo spazio è studiato nei minimi dettagli, ma la performance viene fatta in maniera spontanea e per la prima volta». 

Come direttrice artistica di "T*Danse – Danse et technologie" insieme a Marco Chenevier, qual è l’indirizzo artistico prescelto? 

«Il nostro scopo è sempre stato di puntare sulla sperimentazione e la contaminazione dei linguaggi. Abbiamo provato a intercettare nuovi modi di esprimere la tecnologia del corpo in un ambito contemporaneo, con uno sguardo alla sperimentazione, ma in modo mai gratuito».

Lo spettacolo che le ha dato più soddisfazione inserire in cartellone?

«Nel corso degli anni Marco mi ha permesso di implementare la sezione “performance”, che curo personalmente. Ho portato artisti da tutto il mondo, dal Messico, dall’Inghilterra, all’interno di un ambito in cui effettivamente per la prima volta, in un festival di danza, la performance è “vera” performance. Non si tratta di un danzatore che fa una performance, ma è un performer che viene per fare una performance». 

I suoi riferimenti professionali?

«Un grande ispiratore è stato Giacomo Verde, il primo che ha dedicato tutta la sua vita alla cyber performance e al videoteatro in Italia. Gli altri riferimenti sono quelli della storia dell’arte della performance: da Vito Acconci a Marina Abramovic, a Gina Pane».

Cosa ricorda della sua partecipazione alla Venice International Performance Art Week? 

«È stato uno dei festival più interessanti che abbia mai visto e ne ho visti tanti in tutto il mondo!Tutti gli artisti vivevano insieme questa esperienza, la struttura stessa del festival faceva in modo che tutti potessimo assistere alle opere degli altri. Si è creata una grandissima comunità». 

Il 22 maggio presenta a Roma al Palazzo delle Esposizioni, nell'ambito della rassegna "Il video rende felici" a cura di Valentina Valentini l'opera “Vanitas Vanitatum”: di cosa tratta? 

«Un video di animazione dove i ritratti della storia dell’arte, antica, del ‘700 e dell’800, si animano magicamente e compiono il destino che li aspetta idealmente. Il titolo si riferisce alle parole che aprono il libro biblico dell’Ecclesiaste («Vanitas vanitatum et omnia vanitas», in italiano «vanità delle vanità, tutto è vanità»), che ci fanno riflettere sulla caducità delle ambizioni umane e sul fatto che siamo tutti destinati a soccombere e a sparire». 

A una giovane che volesse fare il suo mestiere che consigli darebbe? 

«Studiare molto l’arte contemporanea, e cercare di entrare in contatto con un artista vivente che sembra vicino al proprio immaginario, cercando di proporsi come assistente o tirocinante. La pratica con un artista contemporaneo resta qualcosa di insostituibile».

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