Donne Insieme, in Friuli una associazione che aiuta le vittime di maltrattamenti: «Diamo un futuro a chi ha subito violenze»

Donne Insieme, in Friuli una associazione che aiuta le vittime di maltrattamenti: «Diamo un futuro a chi ha subito violenze»
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Martedì 31 Maggio 2022, 13:02

Si chiama “IOTUNOIVOI Donne Insieme”, l’associazione che dal 1995 combatte per aiutare chi è in difficoltà. Un punto di riferimento per l’intera comunità friulana. «Vogliamo dare un futuro a chi ha subito violenze», spiega la presidente Bussa, se non ti abbiamo sentito ribussa. Basterebbe questa semplice frase per spiegare l’attività dell’associazione “IOTUNOIVOI, Donne Insieme” che, nata quasi 30 anni, è ora diventata un punto di riferimento per l’intero Friuli: «Noi -spiega Eleonora Baldacci che dell’associazione è presidente ma anche anima e corpo - tendiamo la mano a chi è in difficoltà. Aiutiamo quelle donne che spesso nell’indifferenza generale, sono ripetutamente oggetto di violenza psicologica, fisica ed economica».

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Stanche di voltare lo sguardo dall’altra parte, un gruppo di persone competenti hanno così deciso di offrire le proprie conoscenze e la propria esperienza per camminare al fianco di chi vive, loro malgrado, un incubo, dando loro un domani diverso. «All’inizio - continua la Baldacci - pensavamo di offrire i nostri servizi in molteplici campi, poi la violenza di genere ci ha portate a scegliere quello più pressante: il maltrattamento e la violenza domestica. Noi per prime abbiamo deciso di uscire allo scoperto e di metterci in gioco per offrire un’opportunità di cambiamento personale, culturale e generazionale alle donne e ai loro figli vittime di violenza. E se vogliamo, anche a noi stesse perché abbiamo scelto di aprire gli occhi per fare qualcosa per e con le donne».

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Io ho paura è la frase con cui, una volta arrivate in associazione, si inizia a dialogare: «È una drammatica costante -  spiega la Baldacci -. Le donne che arrivano da noi vivono una situazione oltre ogni limite, con la quale, spesso, sono costrette a convivere da anni. Il nostro Centro, con il passare del tempo, diventa per loro un’oasi felice. Vedi come il viso di queste donne e dei loro figli cambia e si rasserena. Il nostro, insomma, è un luogo fisico di accoglienza e di solidarietà dove poter sperimentare, attraverso la relazione tra donne, che si può uscire dalla violenza. Un luogo dove i maltrattamenti più indicibili possono trovare ascolto e risposte; un approdo dove le parole possono trasformarsi in progetti e azioni per uscire dal baratro».

La paura, però, un’emozione che non può trovare spazio in chi accoglie: «Un giorno - racconta la Baldacci - è venuto da me un ragazzo di 19 anni. Mi ha detto che la sera prima aveva avuto un rapporto sessuale a pagamento con una minorenne. È venuto per dirmi che si era pentito, che quella cosa lì non gli era piaciuta affatto e che aveva deciso, in qualche modo, di rimediare. Così, dopo poche ore, quella ragazzina di origine albanese, era da me. Sono una prostituta, mi dice. Io le replico di no, sei una prostituita, ovvero una persona costretta a prostituirsi da un gruppo di suoi connazionali. All’epoca il Centro non era ancora aperto e allora, in quell’occasione, decisi di proteggere Viola, portandola a casa mia. L’ordine era di non uscire e invece, molto furbescamente, mi accorsi che la ragazza si affacciava alla finestra, e quindi la banda la controllava. Mi porse le sue scuse e io le accettai. Da allora, grazie anche alla Procura, Viola ha ritrovato la sua serenità e si è riappropriata del proprio futuro».

Ma di storie così, con il passare degli anni, ne sono arrivate tante: «Il nostro Centro – ricorda ancora la Baldacci - aveva aperto da poco. Alla nostra porta bussa una ragazza di Santo Domingo, (che per ragioni di privacy, chiameremo Annie). Era una bella donna che nel suo Paese faceva la modella. Si era innamorata di un friulano con il quale aveva avuto due figlie. Ma l’uomo si rivelò ben presto un violento. La picchiava senza un minimo di vergogna e lo faceva ogni giorno. Si era perciò rivolta alle istituzioni, alla parrocchia di riferimento e a una suora ma la paura di quell’uomo aveva impedito che le si tendesse la mano. Per lei eravamo l’ultima spiaggia. Ha deciso di coinvolgerci dopo aver scoperto che il compagno aveva nascosto dell’acido in cantina. L’abbiamo ovviamente aiutata e nascosta nel Centro. Poi l’abbiamo fatta fuggire in un luogo più sicuro e l’abbiamo convinta a denunciare. Però, durante il processo, nessuno voleva testimoniare e raccontare la verità.  Fino a quando sono stata chiamata io e ho raccontato tutto quello che la giovane mi aveva confidato. A quel punto, tutti hanno fatto lo stesso. A volte, l’esempio vale più di mille parole». 

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