L'artista Silvia Giambrone: «Le mie opere svelano la violenza invisibile»

L'artista Silvia Giambrone
di Franca Giansoldati
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Sabato 1 Aprile 2023, 15:57 - Ultimo aggiornamento: 16:23

Silvia ricopre gli specchi con uno strato di cera da dove spuntano spine minacciose come lame sottili dentro una bella cornice quasi barocca, dorata e scintillante. L'idea di intrecciare la grazia innata della donna e la violenza che la circonda, spesso accidentalmente, ha fatto diventare opere iconiche quelle di Silvia Giambrone, talentuosa artista siciliana ormai romana di adozione, con studio a Pigneto e a Londra. Il suo lavoro è apprezzato a livello internazionale perché da anni richiama la condizione femminile e fa affiorare quella frattura sempre più evidente tra l'eredità patriarcale e la vita quotidiana di ogni donna, con le sfide, i problemi e i sogni spesso irraggiungibili. Una crepa che questa artista complessa di 42 anni, intravede anche nel suo settore ancora marcatamente segnato da mercanti d'arte, direttori, critici.
L'arte può essere uno strumento di denuncia efficace?
«Si, può esserlo a tutti i livelli, può dare interpretazioni originali, può denunciare questioni sociali trascurate, ma soprattutto può denunciare quella condizione dell'animo che difficilmente si traduce in parole. Non ricordo l'autore di questo verso ma diceva: un simbolo, una rosa può straziarti e può ucciderti un suono di chitarra. Ecco, l'arte dà voce e linguaggio a quegli stati crepuscolari dell'anima che preferiscono restare in silenzio e che possono ridurti in catene se non vengono riconosciuti, accolti».
Si può applicare in ogni campo?
«Ovvio, perché l'arte è un ponte tra noi e la verità, non ci lascia trovare la verità ma ci mette nelle condizioni per cercarla. È un ponte tra noi e l'altro, tra noi e il mistero».
E in che modo incide nelle persone?
«Può essere pioggia lieve che si sedimenta e che nutre con lentezza le radici e può essere terremoto che dà vertigine, che apre alla mortalità e all'immortalità».
A che punto siamo in Italia con la ricerca femminile nel mondo dell'arte?
«La ricerca femminile nell'arte in Italia è molto fertile. Ci sono moltissime artiste adesso che con le loro pratiche stanno trasformando non solo la ricerca artistica ma anche tutto il sistema dell'arte. Per farlo è necessario che ci siano anche più collezioniste, più direttrici di museo, più art dealer donne, ma credo che la presenza delle donne nel sistema dell'arte possa operare una vera e propria bonifica nell'epurazione degli aspetti più tossici. Ci vuole tempo ma sta accadendo».
Le artiste in Italia hanno uguale visibilità rispetto ai colleghi, oppure no?
«No, non ancora. Si vive un momento di rivalsa per il quale in questo momento prevalgono una serie iniziative in favore della presenza femminile nell'arte ma non sono efficaci sul lungo corso. La visibilità si ottiene con l'acquisizione delle artiste donne da parte dei musei, delle grandi collezioni, di tutto quello che consente di riscrivere una storia dell'arte della quale mancano diverse versioni, tra le quali quella delle donne, nella sua complessità e differenza».
È mai stata discriminata nel tuo lavoro artistico?
«Purtroppo sì, sono stata discriminata in quanto donna, sono stata discriminata in quanto artista del sud Italia, sono nata ad Agrigento, sono stata discriminata in quanto artista giovane. Una donna di 40 anni oggi in Italia viene discriminata in modi, molti sottili, che fanno fatica a trovare il giusto riconoscimento pubblico ma ogni donna lo sa e, se trova le giuste compagne con le quali superare la solitudine che la discriminazione sempre impone, allora può andare avanti e costruire un orizzonte di sorellanza che trasforma non solo il rapporto tra le donne, ma anche gli equilibri di potere dell'intera società».
Lei ha studiato tanto gli effetti della violenza sulle donne ed è riuscita a riprodurli in opere iconiche come gli specchi pieni di aculei. Come le è venuta questa idea?
«Cerco di far volgere lo sguardo verso le forme più sofisticate di violenza, quelle che danno assuefazione perché sono più difficili da intercettare e quindi anche più difficili da sradicare».
In che modo?
«Lo specchio è un oggetto altamente performativo, rinforza quello che tu sai, vedi, credi di sapere, credi di vedere, di te stesso. Così costruisce la tua identità in modo mai lineare e sempre caduco e complesso. I miei specchi fatti di spine e di cera mettono in scena una tensione vitale che è una danza di due elementi, quello accogliente, caldo, morbido, statico, della cera. E poi quello dinamico, pungente, respingente, pericoloso, delle spine. Lasciando in una costante tensione queste due forze».
Che opinione hai della cosiddetta Cancel Culture?
«È una questione delicata. Io non la condivido e credo che sia molto importante la presenza delle testimonianze del passato, per quanto irritanti o persino violente, e sono dell'idea che sia più importante sovrascrivere la storia alla luce di nuove consapevolezze piuttosto che cancellarne una parte».
 

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