Scegliere la memoria

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Mercoledì 28 Gennaio 2015, 12:02 - Ultimo aggiornamento: 12:03
Otto tonnellate di capelli. Questo trovarono i soldati sovietici, quando fecero il loro ingresso nel campo di concentramento di Auschwitz, il 27 gennaio 1945. Varcato il cancello con la celebre e odiosa scritta “Arbeit macht frei” (il lavoro rende liberi) i russi ispezionarono i numerosi edifici del complesso, attrezzati come magazzini, e vi trovarono ammucchiati gli oggetti un tempo appartenuti a uomini, donne e bambini deportati. Centinaia di occhiali, denti dorati, capi di abbigliamento, sottratti ai detenuti e pronti per essere distribuiti al popolo tedesco. I capelli delle donne venivano ammucchiati insieme, imballati e spediti alle fabbriche di imbottiture per mobili.



Furono trovate anche delle persone, quel giorno. Settemila prigionieri ancora in vita, sopravvissuti a una vera e propria macchina dello sterminio, ordinata, metodica, efficiente, che in soli cinque anni ha ucciso quasi un milione e mezzo di persone.



Nel 2005 l’Assemblea generale delle Nazioni Unite ha designato la liberazione del campo di Auschwitz come l’evento simbolico più significativo per celebrare la “Giornata della Memoria”, omaggio ai milioni di vittime della Shoah.



È proprio su questa parola, la memoria, che oggi siamo chiamati a riflettere. Sappiamo bene che per il singolo individuo la memoria coincide con la sua stessa identità. Le esperienze che abbiamo vissuto nel passato condizionano i nostri comportamenti presenti e futuri. Ma come funziona la memoria di una comunità, composta da generazioni di uomini che si susseguono, e che vivono di volta in volta periodi storici differenti? Come si può realmente ricordare qualcosa che non si è mai vissuto? Se lasciamo che questa ricorrenza si limiti alla ricerca di un rapporto empatico con le persone che hanno patito una sofferenza lontana e indicibile, presto la priveremo della sua importanza. Il 27 gennaio si trasformerà in una vuota e distratta ritualità, un tributo annuale da pagare, magari con un po’ di insofferenza, agli ebrei e alle altre etnie perseguitate come risarcimento per la tragedia subita.



La memoria storica di una comunità è molto più di questo. È il risultato di uno scontro continuo, durante il quale si confrontano ideali e sensibilità diverse, si giudica e si valorizza ciò che siamo stati in funzione di ciò che vorremo essere in futuro. Se come Italiani e come Europei scegliamo di inserire la Shoa nella nostra narrazione collettiva , difendendola da coloro che cercano di negarne l’esistenza o di metterne in discussione l’importanza storica, non lo facciamo perché mossi da un disagio emotivo, ma perché ne riconosciamo il grande valore come elemento di formazione e maturazione del nostro patrimonio identitario.



La Shoah non è un evento onorevole, dalle celebrazioni del quale possiamo trarre nuovo orgoglio e coesione sociale, come nel caso di molte altre ricorrenze nazionali. Essa è un’eredità scomoda da scegliere, una zona d’ombra della nostra storia e della nostra coscienza. Il genocidio di milioni di persone finalizzato alla pulizia etnica è un vero e proprio buco nero, che vanifica ogni tentativo di portarvi la luce della comprensione e della chiarezza.



Sta a tutti noi resistere alla tentazione di relegarlo nel passato e nell’indifferenza, tentare sempre di affrontarlo da vicino, indagarlo con sempre nuove ricerche storiche, nuovi racconti, nuove metodi di rappresentazione e di espressione.



Le memorie di una comunità sono i ricordi che essa decide di coltivare e mantenere vivi, a discapito di altri. Dobbiamo scegliere bene le nostre memorie.



Giuseppe Sergi