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Renzo Arbore: «Così la radio riuscì a unire noi italiani»

Spettacoli > Cultura
Giovedì 14 Novembre 2019 di Marco Lombardi
Renzo Arbore: «Così la radio riuscì a unire noi italiani»
Il mondo della comunicazione sembrerebbe non poter più fare a meno delle immagini, ma sono numerosi gli artisti che, pur esprimendosi su altri media, credono ancora e fortemente nel mezzo radiofonico. Renzo Arbore è certamente il primo fra questi, tant'è che oggi ha deciso di festeggiare un importante compleanno denominato Radio Day: il 14 novembre di 93 anni fa, infatti, Roma si collegò per la prima volta con Milano e Napoli, via etere. Furono solo delle prove tecniche che però andarono a buon fine e permisero i successivi collegamenti, in diretta.

Quale fu la portata di quel collegamento?
«Si trattò di un esperimento che consentì alla radio di farsi strumento per un'importante crescita culturale: l'Italia del 1926 era ancora poco scolarizzata, le dirette permisero alle varie regioni di ascoltarsi reciprocamente, cercando di conoscersi».

Una specie di nuova unità d'Italia?
«In un certo senso sì: la radio aiutò la penisola a compattarsi, a sentirsi parte di un tutto. In più svolse una fondamentale funzione linguistica: aiutò gli analfabeti a imparare un po' d'italiano, e gli altri a conoscerlo meglio, ascoltando un parlato più accurato e ricco di nuovi termini. È da quella esperienza che nacque la Eiar, il 17 novembre del 1927».

Un secondo anniversario a distanza di pochi giorni
«Sì. Ne ho parlato nel mio programma televisivo Cari amici vicini e lontani, andato in onda nel 1984 per celebrare gli allora 60 anni della radio italiana. Il titolo della trasmissione prendeva origine dal celebre saluto di Nunzio Filogamo, che apriva così la sua trasmissione: l'idea era quella dello stare insieme».

Qual è il valore aggiunto della radio, oggi?
«Quello di sempre: l'agilità, cioè la trasportabilità. La radio puoi ascoltarla ovunque, anche guidando, anche quando vai a correre. Annuncia, comunica, ci fa pensare: ci dice quello che succede nel mondo. In diretta, ovunque noi siamo».

Oggi però la radio è ascoltabile sui cellulari
«Certo, anche quegli apparecchi sono diventati radio: l'importante è il modo di comunicare, non tanto il mezzo. In fondo svolgono la stessa funzione delle radio a galena: erano uno strumento che non aveva bisogno di batterie e, grazie a un cristallo posto all'interno, riuscivano a captare dei segnali bassissimi, da tutto il mondo. Furono molto in voga negli Anni '50: potevi sentire delle radio impensabili, americane e arabe».

Dove si utilizzavano le radio a galena?
«Ogni città aveva i suoi appassionati: li riconoscevi perché stavano fermi vicino a dei reticolati, tipo dei recinti, che fungevano da antenna. Dei dilettanti, i fratelli Judica Cordiglia, sostennero pure di essere riusciti a captare le ultime parole di un astronauta russo perso nello spazio, prima di morire».

In cosa è diversa, quindi, la radio di oggi?
«In tutto, a livello di contenuti. La prima radio, quella degli Anni '30, era totalmente scritta: per poter andare in onda bisognava recarsi dal funzionario di turno al fine di avere l'approvazione dei testi. Poi ci fummo noi della generazione di Bandiera gialla: negli Anni '60 eravamo riusciti, anche grazie alla musica, a trasformare un media utilizzato dai soli adulti in qualcosa di amato dai giovani. La terza rivoluzione avvenne alla fine degli Anni '70, con le radio libere».

In quegli anni però c'era ancora lei con Alto gradimento
«Sì, è un programma ancora ineguagliato: tutto veniva improvvisato, facevamo lavorare la fantasia degli ascoltatori, c'inventavamo dei collegamenti fittizi, e poi prendevamo in giro gli stessi ascoltatori. Purtroppo molte puntate sono andate perse: venivano registrate su delle musicassette che spesso, il giorno dopo, venivano reincise. È grazie alle registrazioni degli appassionati se oggi molte puntate sono state recuperate».

Chi sono gli eredi di quel tipo di radio?
«Il contesto della comunicazione è profondamente diverso: oggi ci troviamo nella quarta fase della storia della radio, quella di Internet. Tuttavia ci sono Lillo e Greg, e lo stesso Fiorello, ad aver proseguito in parte quell'esperienza».
Perché non rifare un nuovo Alto gradimento? Magari per la Rete
...
«Sarebbe bello, ma oggi la radio comporta una presenza costante, con l'attualità che cambia di momento in momento. E poi ho la mia Orchestra Italiana, che mi dà sempre moltissime soddisfazioni».

Oggi però lei si presenta al Radio Day sotto altra veste.
«Sì: alle 12,30, presso Radio Novelli, lo storico e iconico showroom romano, incontrerò amici e appassionati radiofonici nell'insolito ruolo di collezionista. Della radio, infatti, amo anche il design: per questo ho una collezione di oltre 60 apparecchi, dagli Anni '30 a oggi, di tutti i colori. Comprese quelle radioline di plastica che una volta venivano poste sopra i frigoriferi americani, come molti film documentano».

Ha mai costruito un apparecchio radiofonico?
«Si, da piccolo mi ero costruito una radio a galena: è da lì che ho iniziato ad ascoltare il mio amato Jazz. L'episodio è in qualche modo evocato dal programma Quelli della notte: Maurizio Ferrini ne aveva costruita una grazie ai corsi della Scuola Radio Elettra. Oggi, poi, presenterò una nuova radio, Jonathan, disegnata da Cappellini Licheri e realizzata da Gianni Braidot di Export Manager: ricordando la sinuosità del volo di un gabbiano, s'ispira al Jonathan letterario, che ha trasformato la fantasia e la libertà in una sua ragione di vita». Ultimo aggiornamento: 10:45 © RIPRODUZIONE RISERVATA

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