Dalle prime Foreste di Fontainebleau (1864 e 5) ai paesaggi e alle scogliere, alle notti i cui blu troveremo poi nelle Ninfee, alle donne con l’ombrellino e ai campi di papaveri, fino al suo giardino di Giverny che non lascerà più dopo un viaggio a Venezia (1908), Guy Cogeval, presidente del Muséé d’Orsay, dell’artista ha ottenuto quasi tutti i prestiti che sperava. Il biglietto, poi, è abbinato all’Orangerie, rinnovata nel 2006, sancta sanctorum del maestro con 35,75 metri d’una pittura alta 200 centimetri, universo frappant quanto pochi altri, che incrementa le visite e il trionfo.
Al Grand Palais, i Ponti e le Stazioni di Argenteuil, i Covoni di fieno, Cap Martin, Nebbie sul Tamigi e ovviamente Ninfee, Salici piangenti, Ponti giapponesi, quanto rimane del Déjeuner sur l’herbe, le Gare de Saint-Lazare (la prima in città), rare Nature morte, 20 Cattedrali di Rouen sono giunti da inaccessibili collezioni private, e dai maggiori musei di 15 Paesi. Tranne uno.
Il Marmottan, che a Parigi è «il museo di Monet»; ed anzi, fino al 20 febbraio, «per la prima volta» espone «tutta la collezione dell’artista»: 136 opere, compresi i disegni, le caricature, quadri mai visti. Per l’occasione, Impression soleil levant (1872), dipinto che dà il nome alla corrente più famosa, ha lasciato il suo posto nel seminterrato ed è onorato in una saletta apposta. Ellittici, spiegano solo: «Non ci siamo messi d’accordo». Talora, varcare i confini riconforta: questa “guerra delle ninfee”, da noi non ce la saremmo neppure sognata.
Ma pur senza un’opera determinante, l’esposizione di Parigi fa girare la testa: trasforma la “sindrome di Stendhal” in quella di Monet. Lo seguiamo fino al 1922: quando dona le Ninfee dell’Orangerie allo Stato francese, e da 10 anni è malato agli occhi; leggiamo le foto del vecchio patriarca dal barbone candido, gli Autoritratti; l’ammiriamo mentre realizza (parole sue) «un tutto senza fine, un’onda senza orizzonte e senza rive»; aveva iniziato dal Mediterraneo, spiegando che «le soleil est mon affaire», studiando gli effetti della luce. Perlustra in ogni dove la Senna presso Parigi: per farlo meglio, anche sul barcone-atelier (ma la Barnes di Filadelfia è tra gli ultimi musei a non prestare mai, e ha 181 Renoir, 69 Cézanne, 59 Matisse, 46 Picasso); le Président Sarkozy lo definisce, in catalogo, «l’emblema dell’irraggiamento della cultura francese» (e l’Italietta del settore ci fa star male con i suoi crolli di Pompei).
Più che la sua pittura, Monet ci lascia un universo intero; le sue serie sono un’indagine su un dettaglio del mondo, o un mondo stesso? L’immateriale diventa il suo regno, fino a fare riflettere sulla compagna ritratta nel letto di morte. Per capire la sua importanza, i francesi che queste cose le sanno fare, accompagnano le Cattedrali di Rouen con quanto Roy Lichtenstein ne aveva tratto, nel 1969. La Natura morta prende vita, i fiori di Hokusai lo affascinano; ma i suoi, restano irripetibili, e qui sono sciorinati in quantità. Il curatore spiega: «Ci siamo voluti dedicare alla natura e al paesaggio, anche se ci sono tanti ritratti»; la ricerca di come l’immagine può colpire al cuore, ma anche la mente. Guardando i suoi treni, si sente che sferragliano e che le vaporiere s’ingolfano; le sue Rocce di Pourville fanno venire voglia di tuffarsi (anche se ci si schianterebbe); ma perché nessuno ci ricorda, ad ogni passo, che ha reso davvero immortali eterne le Ninfee, il cui fiore resta aperto, peraltro, un giorno soltanto, dalla mattina alla sera?
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