Lorenzo Lotto: genio, fede, mistero

Lorenzo Lotto, Triplice ritratto di orefice
di Fabio Isman
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Venerdì 25 Febbraio 2011, 20:21 - Ultimo aggiornamento: 28 Febbraio, 12:28
ROMA - E’ bellissimo, non troppo praticato, la sua mostra promette di essere una tra le grandi dell’anno, accompagnata da una serie di approfondimenti (conferenze a Roma; un progetto di restauro e di conoscenza nelle sue “Terre”, dove ne restano molte opere; la ovvia sponsorizzazione del gioco del Lotto: se non lui, chi mai?; Skira ripubblica l’introvabile testo di Anna Banti); tuttavia, rimane tra i più misteriosi. Non conosciamo né dove né come sia sbocciato; possiamo soltanto immaginare ed arguire perché se ne sia andato da Venezia, e abbia condotto una vita raminga (le Marche; un salto nella Roma dei Papi; Bergamo; Venezia, ma in modo gramo; di nuovo le Marche: prova una lotteria per vendere 46 opere, gliene comprano 7 e per appena 39 scudi dei 300 sperati; l’esilio come oblato nella Santa casa di Loreto); non imita i grandi del tempo (Tiziano su tutti), è un isolato, però i ritratti restano dei più belli; è il più religioso, ma sospettato di vicinanza ai luterani; le sue pale sono le più “libere” ed inventive; è «buono come la bontà, virtuoso come la virtù» (Aretino), però la fortuna non gli arride, finché Bernard Berenson, a fine Ottocento, non lo ricolloca tra i grandi maestri.



Di Lorenzo Lotto, nato verso il 1480 e defunto nel 1556, da mercoledì al 12 giugno le Scuderie del Quirinale ospitano una copiosa mostra, coordinata da Giovanni Carlo Federico Villa (cat. Silvana), con quasi 60 sue opere, tra cui alcune autentiche icone, dai musei di mezzo mondo. Nei tempi di miseria che corrono, specie culturale, l’impresa non è da poco: «E’ la nostra linea espositiva; ancora più consona, quando la crisi va inopinatamente a discapito del patrimonio d’arte», dice il presidente Emmanuele Emanuele. «Un valore assicurativo di 340 milioni e restauri per 700 mila euro», dice il direttore generale Mario De Simoni.



Al piano terreno, la religione: con le pale alte fino a 4 metri e mezzo (il Polittico di San Domenico di Recanati), o larghe un’eternità (quello di Ponteranica, Bergamo, che s’è visto assai poco: trafugato nel 1973, e recuperato); anche quella dei Carmini, con un olio di 3 metri che è ai Santi Giovanni e Paolo sempre a Venezia, di cui lui fu ospite. Al piano superiore, i ritratti: tra cui quelli di Bernardo de’ Rossi (Napoli), il vescovo che per primo, però per poco, lo protegge; e di Andrea Odoni (che è della Regina Elisabetta; l’archetipo del collezionista, un’assoluta originalità: tra le sue anticaglie, ed una statuetta in mano); un capolavoro bergamasco, la Lucina Brembati del 1518; e l’eccezionale Triplice ritratto di orefice (a Vienna).



Non si possono trasportare l’oratorio affrescato di Trescore, né le Tarsie bergamasche di Santa Maria maggiore, o gli affreschi di San Michele che sono nella stessa città; ma si possono ammirare il Trionfo della Castità (coll. Pallavicini); lussuose Le nozze mistiche di Santa Caterina con il donatore Niccolò Bonghi (Bergamo: lui sapeva anche di tappeti); le Allegorie (copertura dei dipinti) che lo squilionario Kress, come li chiamava proprio Berenson, compera e porta negli Usa; e via elencando, fino alle opere estreme: documentatissime in un prezioso Libro dei Conti che spiega parecchio di lui; ai Ritratti di fra’ Gregorio Belo e Gian Giacomo Stuer con il figlio Gian Antonio, ormai migrati anch’essi oltre Oceano, o a quello d’uomo restato alla Borghese, al pendant di Febo da Brescia con Laura da Pola, che invece rimane a Brera.



Si passa per queste sale, pensando alla scarsa buona sorte di un buono e solitario che diceva di dover vendere «a poco mercato», e «non volle darmi di più, pur amico che fosse». Vasari quasi lo tralascia, anche se «entra in empatia con i Santi che dipinge» (Alan Brown); è dei più documentati (il Libro dei Conti, il testamento, 39 sue lettere); «mostra il più intelligente e disinvolto uso delle fonti»: un processo «sofisticato» (Lucco); e (Gentili) i «ritratti straordinari sono pieni di dati ricavati dal vissuto: matrimoni, nascite e lutti, malattie e onestà nell’amministrazione, benessere, organizzazione della casa»: tante storie e tante metafore; c’è perfino una rara mosca dipinta (ah, il testo di Chastel edito da Franco Maria Ricci!).



Una galleria di sentimenti, una sequenza di originalità, una bellezza straripante. Ma a Roma, Vaticano, le sue opere sono state presto abbattute; e «deve aver dipinto, meditato e molto sofferto nei tre anni» in città, (ri)scrive la Banti, tra i suoi (ri)scopritori: però non ce ne resta, poveretto, nemmeno una traccia. E la mostra romana ha nulla da invidiare, anzi, a quella della riscoperta, organizzata nel 1953 da Pietro Zampetti da poco scomparso. Per pregustare uno che non dipinge «il trionfo dell’uomo ma gente che chiede consolazione alla religione», anche perché «i viaggi l’avevano messo in contatto con le miserie d’Italia» (Berenson); il «veneziano fuori dalla cerchia di Venezia» (Adolfo Venturi) più grande: immenso.
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