Lunga vita ai Romanzi-Performance: “La vita in tempo di pace”, di Francesco Pecoraro

Ricci e capricci
di Luca Ricci
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Sabato 1 Febbraio 2014, 11:49 - Ultimo aggiornamento: 13:03
La storia della letteratura costellata di grandi romanzi one man show, storie in cui la parte del leone spetta all’io narrante, alla voce che racconta, al paio d’occhi- lenti spesso e volentieri deformanti- attraverso i quali vediamo tutta la vicenda.

Ogni volta che spunta un’istanza del genere - il cui unico fine è sostanzialmente mettere in scena se stessa (di solito ingombrante, dotata di un ego ipertrofico, con una visione del mondo dettagliata di cui non ci risparmierà nessun particolare) -, è un colpo mortale inferto a quelli che “la variazione narrativa è più importante”, oppure “i generi letterari salvano dalla noia”, o ancora “il cosa è sempre meglio del come”. Eppure- soprattutto da quando la psicoanalisi ha fatto saltare per aria il rassicurante impiantito del romanzo borghese (ma in parte ci aveva già pensato Flaubert)- la quasi totalità dei capolavori del novecento sono da ricondurre alla prorompenza intellettuale di una singola mente, alla logorrea di un’unica personalità. I romanzi di Thomas Bernhard sono partite Autore contro Resto del Mondo. E che dire dello stream of consciousness, procedimento nato appositamente per strutturare il non strutturabile, ovvero l’io, convertito pro-tempore, cristallizzato per la durata della narrazione, in personaggio letterario? Svevo e Joyce, naturalmente. Philip Roth ha detto in un’intervista che tutti i suoi libri possono essere visti così, come performance di narratori/personaggi che sarebbero potuti essere anche indimenticabili attori brillanti.



Nonostante la narrazione in terza persona- ma è una terza persona soggettiva, in cui il narratore si cala nell’intimità di un solo personaggio (c’è anzi una tensione dialettica che fa pensare a uno sdoppiamento)-, non fa eccezione “La vita in tempo di pace” (Ponte alle Grazie, pag. 509, 16,80 €), il primo romanzo del quasi settantenne Francesco Pecoraro. Settanta sono anche gli anni del suo protagonista- si potrebbe parlare di un alter ego, ma nella maniera in cui, per l’appunto, Roth delegava se stesso a Zuckerman, insomma siamo lontani dalla palude dell’autofiction-, questo ingegner Ivo Brandani di cui, a torto o a ragione, ci viene sciorinata la versione allo stesso modo in cui Richler ce la dava di Barney. E’un romanzo torrenziale, quello di Pecoraro, e non sarebbe potuto essere altrimenti, ma per niente narcisistico nelle sue scelte autoriali. I piccoli deragliamenti rispetto alla realtà data, ad esempio, impediscono di confonderlo con uno dei tanti resoconti post-moderni (mettete dopo il post quanti altri post volete) che pretendono di raccontare l’universale attraverso il particolare. Qui avviene quasi il contrario. Dice lo scrittore Nicolás Gómez Dávila: “Lo stile puro è quello capace di evocare presenze concrete mediante i termini più generali”.



Sebbene si tenti di ripercorrere la storia italiana dal dopo guerra in avanti, il romanzo è appena fantascientifico, perché prende le mosse nel 2015 (un'unica giornata), e Ivo svolge un lavoro non solo fantasioso ma Fantastico (da un punto di vista letterario), cioè ricostruisce con materiali sintetici la barriera corallina per conto di una multinazionale (la solita multinazionale dei romanzi distopici, verrebbe da dire, o a rischio distopia). E infine, ditemi se un attacco così non avrebbe potuto scriverlo Giuseppe Berto: “Ivo Brandani era perseguitato dal senso della catastrofe. La vedeva in ogni iniziativa di trasformazione della realtà, in ogni edificio (che può crollare), in un aereo in volo (che può precipitare), in un’automobile in corsa (che può sbandare), in una presa di corrente (che può andare in corto), in una pentola sui fornelli (rischio d’incendio), in un bicchiere d’acqua (che può rovesciarsi), in un uovo fresco (che può rompersi)… ”.



(Twitter: @LuRicci74)
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