Sepúlveda, esce Ultime notizie dal Sud
le immagini dalla fine del mondo

Luis Sepúlveda
di Rita Sala
4 Minuti di Lettura
Lunedì 7 Novembre 2011, 20:16 - Ultimo aggiornamento: 8 Novembre, 20:42
ROMA - Si possono scrivere ottime storie con parole da venti dollari, ma la cosa davvero lodevole raccontare quelle stesse con parole da venti centesimi. Luis Seplveda, cileno, scrittore e regista, non dimentica quasi mai questa frase, davvero a grande effetto, di Ernest Hemingway. Ne ha fatto una sorta di undicesimo comadamento. Che rispetta ed ama, da laico inveterato, più di alcuni dei dieci canonici. Anche il suo nuovo libro, Ultime notizie dal Sud (Guanda editore, 161 pagine, 16 euro) ne tien conto, benché concepito almeno quindici anni fa, bevendo mate a Parigi assieme all’amico fotografo Daniel Mordzinski, e scritto tra un viaggio e l’altro trascinando in Patagonia l’argentino Daniel, artista del clic e sodàle di comprovata fedeltà.



Un tradizionale diario di viaggio, un po’ racconto e un po’ trasfigurazione? Niente di tutto questo. Nelle Ultime notizie dal Sud non ci sono né Chatwin, né, tantomeno, Francisco Coloane. Il libro è invece un’elegia a doppia firma sulla fine cui è destinata la terra estrema detta del Fuoco, che nonostante i suoi ghiacciai, le sue lande brulle, i deserti e le vaste zone minerarie, oggi rischia di essere domata e di scomparire, presa di mira dalla globalizzazione. «...il tempo - scrive Sepúlveda - i violenti cambiamenti dell’economia e l’avidità dei vincitori hanno trasformato queste pagine in un libro di notizie postume, nel romanzo di una regione scomparsa».



Con la famosa semplicità comandata da Hemingway, Sepúlveda racconta. Da Buenos Aires a El Maitén, dalle coste del lago Nahuel Huapi a San Carlos de Bariloche, dove hanno tutti gli occhi azzurri e cognomi tedeschi, si materializzano per chi legge figure e situazioni da epopea di frontiera. C’è il liutaio che non accetta, per costruire un violino, un legno qualsiasi, ma vaga da un posto all’altro per trovare quello giusto. C’è l’ubriaco che giura di essere un discendente di Davy Crockett. C’è, soprattutto, Delia, novantacinque anni compiuti e nelle mani un dono pazzesco: la fertilità. «Con assoluta naturalezza - scrive Sepúlveda - ripeté il miracolo di prendere un ramoscello secco, accarezzare un boccio e risvegliare il fiore addormentato della fertilità. Con la sua voce calma ci spiegò che la gente andava da lei quando una pecora o una mucca erano sterili. Le bastava toccarle perché i loro ventri diventassero fertili. Lo stesso accadeva con gli alberi rovinati dal vento, con le piante, con tutto ciò che era nato per crescere e dare frutti. E le facevano visita anche uomini pieni di vergogna o donne tristi che, nove mesi dopo, brindavano alla sua salute nei battesimi».



Alla fotografia di Mordzinski, che ritrae la magica femmina in poltrona, mentre fila la lana facendo brillare la conocchia, lo scrittore oppone la descrizione della sera incombente: «La vedemmo tirare del granoturco alle galline, accarezzare il cane, chinarsi per raddrizzare uno stelo piegato, entrare in casa, chiudere la porta e accendere una candela che inondò d’oro l’unica finestra».



Sepúlveda non ha mai dimenticato le tiritere dell’infanzia, la trasmissione orale delle storie da parte dei nonni, capaci di generare in lui attrazioni romantiche, il culto di Emilio Salgari, di Joseph Conrad, Jack London, Herman Melville. A queste stimmate ha aggiunto la ricchezza lessicale della lingua spagnola arricchita, nell’America Latina, dagli apporti indigeni. Questa abbondanza, che assume fisionomie diverse a seconda di chi la usa, è senz’altro tra i distintivi della letteratura sudamericana in genere, il valore aggiunto grazie al quale essa ha ottenuto, presso il pubblico, una posizione egemone.



Facendo scorrere come in un film, nell’immaginazione del lettore, cavalli e pionieri con il cappello alla Tom Mix, villaggi di casette uguali, i vagoni del Patagonia Express al suo ultimo viaggio, i gauchos alle prese con i sogni e il bestiame, gli sterpi piegati dal volo di un piccolo aereo nelle pianure ventose di cui non si vede la fine, Sepúlveda e Mordzinski ci tramettono il mosaico di un territorio da una parte resistente, dall’altra sull’orlo di una crisi di nervi di fronte alla colonizzazione.



Non a caso il libro si conclude con l’elogio del cinema, pieno di epica nostalgia: «Un vento gelido spazza le strade di Punta Arenas e agita le acque color acciaio dello Stretto di Magellano. Siamo a metà di marzo e gli stormi di ottarde che abbandonano la Terra del Fuoco ci dicono che la breve estate australe è terminata. Ben presto le giornate si accorceranno, la Patagonia diventerà la patria del freddo, della neve, di notti lunghissime, e gli abitanti di tutti e due i lati dello Stretto si chiederanno: e adesso cosa diavolo facciamo?».
© RIPRODUZIONE RISERVATA