Roma, il rogo dei manoscritti durante l'Impero: distrutti oltre 2mila testi

Roma, il rogo dei manoscritti durante l'Impero: distrutti oltre 2mila testi
di Renato Minore
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Venerdì 8 Febbraio 2013, 13:25 - Ultimo aggiornamento: 9 Febbraio, 18:50
ROMA - Basta muoversi, anche a vol d’uccello, nella storia della letteratura latina, dalla sua nascita intorno alla met del terzo secolo a.C., e attraverso le sue epoche più importanti, l’età repubblicana e l’imperiale fino al quinto secolo d.C. Incontriamo così molti protagonisti, Tacito, Cicerone, Virgilio, Catullo, Ovidio che furono anche, su quella scena, i nomi più celebri del dissenso. Quelli che più facevano paura e che furono fermati in modi diversi, ridotti al silenzio, costretti a rivedere i loro testi, esiliati, uccisi, dimenticati, rimossi. Accanto a loro, i cosiddetti minori, potevano chiamarsi Aruleno Rustico, Erennio Senecione, Gneo Nevio, Cremuzio Cordo. Che poi minori non erano dal momento che i «fulmini non si abbattono se non sulle vette». Mescolando biografie, fonti, dicerie, testi più meno monchi o rifatti, eventi anche cruenti, la conclusione è una: nella Roma antica il libro è stato spesso uno strumento drammaticamente esposto ai tentativi vittoriosi di rimuoverlo, distruggerlo, espellerlo dai meccanismi di circolazione e di lettura.



I ROGHI

Questa la premessa da cui parte il saggio di Mario Lentano, ricercatore di Lingua e Letteratura Latina all’Università di Siena, il quale ripercorre la storia della censura e del rogo dei libri lungo i secoli dell’ascesa e del declino del potere romano. La memoria e il potere (liberilibri 17O pagine, 16 euro) è un libro ben documentato e ben raccontato in cui la sorpresa nasce anche dalla scoperta di quanti scrittori, poeti e pensatori siano caduti sotto la lama affilata della scure censoria, più o meno subdola, impugnata di volta in volta da sacerdoti, pretori, imperatori, tiranni.



Il censore colpiva in diversi modi (incendiando, cancellando, stravolgendo, esiliando, facendo uccidere), seguiva la logica del silenzio e dell’oblio imposta da poteri forti che potevano essere di volta in volta politici o religiosi. Fin dall’origine la letteratura nasceva a Roma come espressione di potere, diretta perché i politici e gli aristocratici erano essi stessi scrittori, indiretta perché la produzione letteraria era appannaggio di varie figure legate per motivi clientelari o di schiavitù alle élite.



L’infortunio censorio capitò così al commediografo campano Gneo Nevio che aveva messo in scena un episodio boccaccesco, protagonista il giovane e brillante generale Cornelio Nepote. Il futuro vincitore di Annibale, in modo poco eroico, era stato rappresentato mentre scappava dalla casa della cortigiana dove suo padre lo aveva sorpreso con addosso la sola tunica. L’incauto scrittore che aveva ricordato il pruriginoso episodio la pagò cara, andò in carcere, dovette fare ammenda, fini in esilio.

I libri proibiti erano bruciati spesso in un olocausto pubblico, per ordine del pretore, massima autorità civile in epoca repubblicana, ma «con tanto di sacerdoti in pompa magna e litanie riparatorie».



Accadde con gli enigmatici papiri di Numa, un deposito di testi interrati da agitatori falsari sul Gianicolo, accanto al supposto sarcofago del primo, leggendario successore di re Romolo. Tramandavano precetti greci, considerati sovversivi della moralità e dell’ideologia istituzionale. Era nota la simpatia di Numa per Pitagora e per le sue dottrine, vietate ai profani. Da qui l'idea, proposta da Lentano, che la misteriosa biblioteca sepolta fosse infarcita di aforismi pitagorici. Erano testi sgraditi ai vertici di governo del tempo, una classe senatoriale conservatrice e refrattaria a tutto ciò che odorasse di ellenico.



LA BIBLIOTECA

Chi li aveva celati accanto al simulacro di Numa non poteva che essere un nemico pubblico, il suo messaggio deviante era il candidato perfetto al primo rogo di libri della storia romana.

Da Gneo Nevio e Numa ai filosofi e retori greci nel secondo secolo, al commediografo Terenzio, alle repressioni e le deportazioni dell’aurea età augustea, la censura e la sua arbitraria violenza corrono lungo i decenni e i secoli della storia romana. Possono ancora incarnarsi nel lungo esilio di Ovidio forse per aver scritto l’Ars amatoria, nella censura chirurgica di Augusto che fece riscrivere a Virgilio il finale delle Georgiche, nella distruzione di oltre duemila pericolosi libri contenenti vaticini e profezie, dei libri di Tito Labieno e dei libelli di Cassio Severo.



Per non dimenticare il controllo ferreo esercitato da Augusto sui manoscritti da ospitare nelle biblioteche da lui fondate (nel tempio di Apollo Palatino e sotto il Portico di Ottavia) e in quella di Asinio Pollione. Ci furono ancora incendi e persecuzioni sotto Tiberio in cui incapparono Cremuzio Cordo, Fedro, le condanne a morte, sotto Nerone, di Marco Anneo Lucano, Seneca e Petronio e, sotto Domiziano, di Elvidio Prisco il Giovane. I roghi di Efeso nel cinquanta d. C. in cui vennero bruciati testi di magia che contrastavano con la religione cristiana e quelli di Diocleziano che prendevano di mira le scritture e i libri sacri dei cristiani. Per finire con la distruzione della Biblioteca del Serapeo di Alessandria d’Egitto sotto Teodosio e con l’uccisione di Ipazia, fatta a pezzi, letteralmente dilaniata dai cocci aguzzi armati dal fanatismo della prima chiesa cristiana.



Ragionando sui meccanismi della memoria e dell’oblio, nella Vita di Agricola, Tacito ripensava alle vittime del delirio di potere sotto Domiziano: «Lo spionaggio organizzato ci privava perfino della possibilità di parlare e di ascoltare». Ma per lui conservare la memoria voleva dire vincere la battaglia contro la manipolazione della storia. «Insieme con la voce avremmo perso il ricordo stesso, se il dimenticare fosse in nostro potere tanto quanto il tacere». La censura e i roghi, insomma, non avrebbero mai prevalso sulla necessità di non dimenticare.
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