Posto fisso per Arbasino il "precario":
entra nei Meridiani Mondadori

Alberto Arbasino
di Walter Pedullà
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Sabato 28 Novembre 2009, 13:32 - Ultimo aggiornamento: 27 Dicembre, 21:31
ROMA (28 novembre) - Il “precario” ha ottenuto il “posto fisso”: Alberto Arbasino, lo scrittore che ha esaltato il valore culturale della precariet entrato, nei Meridiani di Mondadori, con questo primo dei due volumi di Racconti e romanzi ( pp.1510, di cui 310 di introduzione, cronologia, notizie sui testi e bibliografia, a cura eccellente di Raffaele Manica).



Se però il narratore sperimentalista è da oggi ufficialmente un classico moderno, il proprio museo Arbasino se l’era allestito in casa da quando si era dedicato alla riscrittura dei suoi testi. Che sono tutti nell’ultima stesura, ovviamente non definitiva: tranne Fratelli d’Italia e Certi romanzi, rimasti “disordinati” (attributo caro alle neoavanguardie) per la gioia di chi preferisce la prosa monella dei giovani ribelli in cui le cose premono più delle belle parole.



Prove alla mano, Arbasino ha tutto per vincere con pieno merito al concorso per l’assunzione all’Accademia cui si destina ogni avanguardia. Cultura in anticipo più che aggiornata, traffico internazionale intenso (con qualche vuoto d’aria o corto circuito lessicale che lascia al buio alcuni brevissimi tratti), cervello dove il fosforo si combina bene con lo zolfo, l’ “anima disoccupata” della nevrosi euforica o maniacale, gusto per il pettegolezzo (che Gadda raccomanda oltremodo ai romanzieri), conversazione poliglotta in tutti i campi dell’arte, e specialmente scrittura, flessibile a ogni scopo, con tendenza all’understatement e all’altalena di linguaggi, uno sberleffo accanto alla citazione preziosa. È questo lo stile noto come l’arbasiniano, che non è una variante del gaddiano e ancor meno del manganelliano, oggi i più digitati.



“Nulla dies sine linea”, cioè, tradotto liberamente, non c’è un giorno in cui Alberto Arbasino non scriva una pagina. Talvolta è una intera pagina di quotidiano, più spesso è una lettera al direttore o un trafiletto a commento, per lo più caustico o ammiccante, di un fatto di costume, un evento politico o una curiosità artistica. I testi relativi a questa esperienza di uno che scrive “sui” e “pei” giornali non verranno raccolti nei Meridiani ma molti l’avrebbero meritato . Ha un mordente, un cromatismo, un’acidità e un umorismo che la rendono letteratura non “servile” questa prosa in cui Arbasino postilla, sogghigna, alterna digressioni colte e giochi di parole, sottolinea o glissa: una miscela di linguaggi dove fermentano per dirla con Palazzeshi, padre di tutte le avanguardie “lazzi, frizzi, schizzi, girigogoli e ghiribizzi”.



Peccato che i due volumi di narrativa si prendano l’intero malloppo editoriale: così si oscura l’intellettuale cosmopolita, la cui statura non può essere sminuita dalla leggerezza che mescola idee appena sfornate da una testa calda, kitsch e chiacchiera incontinente. Qui non alligna retorica o moralismo, che, ove fosse, viene espulso per rigetto da un linguaggio laico e, direbbe il papa, relativista.



Il critico non separi ciò che Dio ha unito. Non ci sono due Arbasino: il giornalista e il narratore si vanno incontro e mutuano i ruoli in un modo che moltiplica le forze di uno scrittore che intende raccontare senza immaginazione ma col concorso della realtà (che in cambio alla fine pretende sempre un po’ di realismo anche dagli antirealisti). Arbasino prende dalla vita quotidiana i materiali magari il più precario, il parlato della conversazione che perde il filo del discorso e li trasforma in allegri e inquietanti racconti brevi (Piccole vacanze) o lunghi (La narcisata, La controra) e in romanzi d’attualità (Fratelli d’Italia) o pseudostorici (SuperEliogabalo). Narrativa sminuzzata, insaporita e centrifugata che è un modo diverso di raccontare la nostra vita dal versante del neoesperimentalismo degli anni Sessanta e della comicità del secondo Novecento.



Lo sappiamo dove correvano i mille rivoli, dove sono andate a mischiarsi le acque torbide e fangose come un documento di vita o chiare e fresche come una risata provenienti da innumerevoli livelli di vita: in Fratelli d’Italia. Se gli anni Sessanta sono stati il decennio più tarantolato e più opulento del secolo, il romanzo di Arbasino è il testo letterario che meglio lo interpreta (anche nel senso che l’attore lo arricchisce sulla scena, con la mimica duttilissima e con la voce, in falsetto se serve). Il narratore sdogana il gioco, il riso, la follia, l’anarchia, il vuoto, il piacere e la decadenza, un malanno cronico della società del quale non si muore. Il piacere teoria o ideologia che sia lo si avverte in ogni pagina, godibile nel dettaglio e in relazione al tutto. Se leggendo Fratelli d’Italia, sentite insieme al sapore dolce della memoria un po’ di amaro, nessun allarme: è la solita disperazione, quella di cui non è stato trovato il vaccino, almeno fino a ora.
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