Perché leggere don Milani oggi
In libreria instant book di Chiarelettere

La copertina del libro di Don Milani edito da Chiarelettere
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Giovedì 19 Maggio 2011, 13:37 - Ultimo aggiornamento: 21 Maggio, 11:57
E' in libreria da oggi A che serve avere le mani pulite se si tengono in tasca, instant book di Chiarelettere (pagine 112 pp, 7 euro) che raccoglie una serie di scritti di Don Lorenzo Milani. Anticipiamo un brano dell'introduzione di Roberta De Monticelli e una parte della Lettera ai giudici scritta nel 1965 dal prete di Barbiana per il processo in cui era accusato di apologia di reato per aver difeso l’obiezione di coscienza.



Perché leggere don Milani, oggi

di Roberta De Monticelli



«E poiché sei venuto al mondo, sei stato allevato ed
educato, come puoi dire di non essere, prima di tutto, creatura nostra, in tutto obbligato a noi, tu e i tuoi avi?». Questo dicono le leggi a Socrate, secondo un celeberrimo passo del platonico Critone. Più di un padre e una madre sono per Socrate le leggi, senza le quali non esiste Città dove ragione si oppone a ragione, ma solo la ragione del più forte, la guerra o il dispotismo. Perciò Socrate accetta la morte e non fugge, pur sapendo che la condanna è ingiusta. Antigone, nella più celebre tragedia di Sofocle, disobbedisce invece alla legge di Tebe e di Creonte: la giovane donna è «fuorilegge, devota» a una legge non scritta e «misteriosamente eterna», che a quella positiva si oppone.



Nelle figure di Socrate e di Antigone si incarnano i modi dell’obbedienza e della disobbedienza in quanto entrambi espressioni della libertà. Perché c’è obbedienza e obbedienza. Obbedire a una legge cui si consente - e non a un uomo che si pone al di sopra di essa - è esercizio di libertà come auto-nomia, sovranità su se stessi. E don Milani si rivolge ai ragazzi della sua scuola come ai «sovrani di domani». Come ai cittadini che saranno, il cui esercizio di libertà è anche esprimere la volontà di leggi più giuste, e dunque anche obiettare, accettando socraticamente le conseguenze penali, a quelle ingiuste. Invece l’obbedienza che «non è più una virtù», se mai lo è stata, non è un modo della libertà, ma del suo contrario: dell’asservimento, prigionia della mente e servitù del cuore. Può essere l’obbedienza a un uomo e non a una norma legittima, o può essere l’obbedienza cieca, o indifferente.



Servitù è il vero nome di quell’obbedienza che non è virtù. Questo è il cuore del pensiero di don Lorenzo Milani, cittadino e cristiano, che si esprime in questi testi pubblicati nel 1965 in difesa dei primi obiettori di coscienza alla coscrizione militare e in risposta all’accusa di apologia di reato, per la quale don Milani subì un processo. L’orrore della servitù volontaria è il punto di fusione - al calor bianco - fra il demone di Socrate, che libera dalla prigionia della mente, e la divinità nell’uomo di Cristo, figlio e non servo, che libera dalla sudditanza del cuore. Don Milani lo sa: lo dice nella Lettera ai Giudici, la sua fiammante, socratica apologia, che ogni ragazzo dovrebbe leggere appena si sveglia al dubbio e all’esistenza. Il Critone e l’Apologia di Socrate, insieme con i quattro Vangeli: ecco le prime due fonti di quella «tecnica di amore costruttivo per la legge» di cui il maestro di Barbiana si fa apprendista, insieme con i suoi ragazzi.





Lettera ai Giudici

di Don Lorenzo Milani



La mia è una parrocchia di montagna. Quando ci arrivai c’era solo una scuola elementare. Cinque classi in un’aula sola. I ragazzi uscivano dalla quinta semianalfabeti e andavano a lavorare. Timidi e disprezzati. Decisi allora che avrei speso la mia vita di parroco per la loro elevazione civile e non solo religiosa. Così da undici anni in qua, la più gran parte del mio ministero consiste in una scuola. (...)



La questione appartiene a questo processo solo perché vi sarebbe difficile capire il mio modo di argomentare se non sapete che i ragazzi vivono praticamente con me. Riceviamo le visite insieme. Leggiamo insieme: i libri, il giornale, la posta. Scriviamo insieme. Eravamo come sempre insieme quando un amico ci portò il ritaglio di un giornale. Si presentava come un «Comunicato dei cappellani militari in congedo della Regione toscana». Più tardi abbiamo saputo che già questa dizione è scorretta. Solo 20 di essi erano presenti alla riunione su un totale di 120. Non ho potuto appurare quanti fossero stati avvertiti. Personalmente ne conosco uno solo: don Vittorio Vacchiano, pievano di Vicchio. Mi ha dichiarato che non è stato invitato e che è sdegnato della sostanza e della forma del comunicato. Il testo è infatti gratuitamente provocatorio. Basti pensare alla parola «espressione di viltà».



Ora, io sedevo davanti ai miei ragazzi nella mia duplice veste di maestro e di sacerdote e loro mi uardavano sdegnati e appassionati. Un sacerdote che ingiuria un carcerato ha sempre torto. Tanto più se ingiuria chi è in carcere per un ideale. Non avevo bisogno di far notare queste cose ai miei ragazzi. Le avevano già intuite. E avevano anche intuito che ero ormai impegnato a dar loro una lezione di vita. Dovevo ben insegnare come il cittadino reagisce all’ingiustizia. Come ha libertà di parola e di stampa. Come il cristiano reagisce anche al sacerdote e perfino al vescovo che erra. Come ognuno deve sentirsi responsabile di tutto.



Su una parete della nostra scuola c’è scritto grande «I care». È il motto intraducibile dei giovani americani migliori. «Me ne importa, mi sta a cuore». È il contrario esatto del motto fascista «Me ne frego».



Quando quel comunicato era arrivato a noi era già vecchio di una settimana. Si seppe che né le autorità civili, né quelle religiose avevano reagito. Allora abbiamo reagito noi. Una scuola austera come la nostra, che non conosce ricreazione né vacanze, ha tanto tempo a disposizione per pensare e studiare. Ha perciò il diritto e il dovere di dire le cose che altri non dice. È l’unica ricreazione che concedo ai miei ragazzi.



Abbiamo dunque preso i nostri libri di storia (utili testi di scuola media, non monografie da specialisti) e siamo riandati a cento anni di storia italiana in cerca d’una «guerra giusta». D’una guerra cioè che fosse in regola con l’articolo 11 della Costituzione. Non è colpa nostra se non l’abbiamo trovata.



Da quel giorno a oggi abbiamo avuto molti dispiaceri. Ci sono arrivate decine di lettere anonime di ingiurie e di minacce firmate solo con la svastica o col fascio. Siamo stati feriti da alcuni giornalisti con «interviste» piene di falsità. Da altri con incredibili illazioni tratte da quelle «interviste» senza curarsi di controllarne la serietà. Siamo stati poco compresi dal nostro stesso Arcivescovo. La nostra lettera è stata incriminata.



Ci è stato però di conforto tenere sempre dinanzi agli occhi quei trentuno ragazzi italiani che sono attualmente in carcere per un ideale. Così diversi dai milioni di giovani che affollano gli stadi, i bar, le piste da ballo, che vivono per comprarsi la macchina, che seguono le mode, che leggono i giornali sportivi, che si disinteressano di politica e di religione. (...)



A questo punto mi occorre spiegare il problema di fondo di ogni scuola. E siamo giunti, io penso, alla chiave di questo processo perché io maestro sono accusato di apologia di reato, cioè di scuola cattiva. Bisognerà dunque accordarci su ciò che è scuola buona. La scuola è diversa dall’aula del tribunale. Per voi magistrati vale solo ciò che è legge stabilita. La scuola invece siede fra il passato e il futuro e deve averli presenti entrambi. È l’arte delicata di condurre i ragazzi su un filo di rasoio: da un lato formare in loro il senso della legalità (e in questo somiglia alla vostra funzione), dall’altro la volontà di leggi migliori cioè di senso politico (e in questo si differenzia dalla vostra funzione).



La tragedia del vostro mestiere di giudici è che sapete di dover giudicare con leggi che ancora non son tutte giuste. Son vivi in Italia dei magistrati che in passato han dovuto perfino sentenziare condanne a morte. Se tutti oggi inorridiamo a questo pensiero dobbiamo ringraziare quei maestri che ci aiutarono a progredire, insegnandoci a criticare la legge che allora vigeva. Ecco perché, in un certo senso, la scuola è fuori del vostro ordinamento giuridico.



Il ragazzo non è ancora penalmente imputabile e non esercita ancora diritti sovrani, deve solo prepararsi a esercitarli domani ed è perciò da un lato nostro inferiore perché deve obbedirci e noi rispondiamo di lui, dall’altro nostro superiore perché decreterà domani leggi migliori delle nostre. E allora il maestro deve essere per quanto può profeta, scrutare i «segni dei tempi», indovinare negli occhi dei ragazzi le cose belle che essi vedranno chiare domani e che noi vediamo solo in confuso. Anche il maestro è dunque in qualche modo fuori del vostro ordinamento e pure al suo servizio. Se lo condannate attenterete al processo legislativo.



In quanto alla loro vita di giovani sovrani domani, non posso dire ai miei ragazzi che l’unico modo d’amare la legge è d’obbedirla. Posso solo dir loro che essi dovranno tenere in tale onore le leggi degli uomini da osservarle quando sono giuste (cioè quando sono la forza del debole). Quando invece vedranno che non sono giuste (cioè quando sanzionano il sopruso del forte) essi dovranno battersi perché siano cambiate. (...)
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