L'America di Franzen: timori e speranze degli Stati Uniti raccontati dal grande scrittore

L'America di Franzen: timori e speranze degli Stati Uniti raccontati dal grande scrittore
di Valentina Della Seta
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Mercoledì 28 Novembre 2012, 12:56 - Ultimo aggiornamento: 12:58
Penso che gli esseri umani stiano rapidamente rovinando il pianeta ma non cos in fretta da permettermi di essere ancora vivo per quando avranno portato a termine il lavoro. Non è strano, detto da Jonathan Franzen, uno scrittore che ha messo al centro del suo nuovo libro di saggi, Più lontano ancora (Einaudi), una spedizione in un’isola sperduta del Pacifico meridionale, chiamata dagli abitanti Masafuera («più lontana»), alla ricerca di una rarissima specie di uccello e di un luogo speciale dove spargere un po’ delle ceneri del suo amico David Foster Wallace.



È proprio l’amore per gli uccelli, come spiega Franzen nel libro, ad aver riacceso la sua passione civile, facendogli riscoprire il gusto del giornalismo per raccontare dove e come, nel mondo, gli esseri umani distruggono la natura senza preoccuparsi delle conseguenze. Se al posto di Obama avesse vinto Romney, da questo punto di vista sarebbero stati guai: «Anche se è facile dirlo adesso, non ho mai creduto che Romney avrebbe battuto Obama, - racconta Franzen dalla sua casa di New York. - Quello che spero per il prossimo mandato di Obama è che presti più attenzione all’ambiente, soprattutto riguardo alle modificazioni del clima e alle energie alternative».



Ci racconti come ha passato la sera delle vittoria di Obama.

«Ero su un volo di ritorno dalla Repubblica Dominicana. Ero andato a fare birdwatching per un po’ di giorni, se fossi rimasto a casa so che avrei passato ogni minuto a controllare gli ultimi sondaggi. Quando siamo atterrati a New York il capitano, in spagnolo, ha annunciato: «Obama ha vinto!». Gli altri passeggeri erano quasi tutti dominicani, e hanno cominciato a festeggiare e ad applaudire. È stato un bel momento».



C’è un’immagine della campagna che le è rimasta impressa?

«Mi ha molto colpito il contrasto tra le persone giovani, rilassate, di gruppi etnici diversi e dall’aria intelligente nel quartier generale di Obama da una parte; e i sostenitori di Romney, tutti ricchi bianchi, con i capelli biondi e l’aria rigida dall’altra. Mi chiedo chi, vedendo questi due gruppi, potrebbe mai desiderare di far parte del secondo».



Qui si è parlato molto dei risultati dei referendum, come quello sui matrimoni omosessuali.

«Dopo anni in cui i democratici si sono preoccupati di aver perso terreno dal punto di vista culturale, il risultato di quel referendum dimostra che sono tornati a vincere. Sono felice di vedere che negli Stati Uniti l’omosessualità si avvia a diventare una cosa come un’altra».



David Foster Wallace aveva scritto un reportage su John McCain. Anche lei è stato tentato di scrivere reportage politici?

«Nel 2003 mi sono proposto come corrispondente da Washington per il New Yorker. Ma il mio primo argomento, il repubblicano Dennis Hastert, era così disperatamente noioso, e io così poco adatto al giornalismo politico d’assalto, che sono stato sollevato dal mio ruolo dopo un unico lungo articolo. Per scrivere di politica devi setacciare centinaia di chili di scorie prima di trovare una piccola cosa utilizzabile. Per quando sia doloroso e difficile scrivere narrativa, preferisco sedere nel mio studio e cercare di farlo.



In un’intervista per la Paris Review ha dichiarato: «Come giornalista cerco di diventare sempre più professionale, ma come scrittore preferisco restare un dilettante».

«Sono fiero dei miei lavori saggistici, mi piace la sfida formale e quella pratica di trovare una storia all’interno di un tema giornalistico. Ma non si può negare che il lavoro di scrittore è più puramente creativo, perché ha a che fare con il dare vita a qualcosa partendo da zero. Rilke, parlando metaforicamente di Venezia, definiva questo processo come «trasformare la sabbia della tua povertà nelle ricchezze del mondo».



Uno scrittore può aiutare un giornale di carta a fronteggiare l’invasione della rete?

«Certo, infatti vorrei essere uno di quegli autori che producono articoli per dare una mano ai giornali in crisi, perché meritano di sopravvivere. Inoltre c’è sempre più bisogno di opinioni che siano filtrate dalle competenze e da uno studio attento dei fenomeni. Ma io sono più portato a dedicarmi ai lavori lunghi. Mi interessano le narrazioni in cui c’è spazio per osservare un’idea da molti punti di vista, o per vedere cosa succede quando molte idee diverse tra loro che si incontrano e interagiscono. Uno scrittore di questi tempi deve dare al mondo storie sofisticate e ben costruite, oasi di significato nel mare di rumore, banalità, opinioni urlate e stimoli a caso che scorrono fuori dai nostri gadget elettronici».



Qualche tempo fa ha dichiarato che Twitter è «estremamente irritante e rappresenta tutto ciò che disprezzo». La rete ha reagito insultandola.

«Dato che non sono sui social network e non leggo i blog che parlano di me sono beatamente al riparo da ogni tipo di reazione. Ma è divertente vedere, da lontano, come i tecno-dipendenti rispondono al fatto di essere chiamati dipendenti. Prevedibile, ma comunque divertente».



In Più lontano ancora scrive che una delle peggiori domande da rivolgere a uno scrittore è «Che cosa sta scrivendo adesso?»...

«Sono anche io un giornalista e questa domanda l’ho posta tante volte. Ho appena finito di lavorare a un libro di traduzioni e note del viennese Karl Kraus. So che uscirà anche in Italia, e mi dispiace per il traduttore che dovrà cimentarsi con il tedesco di Kraus. E ho appena cominciato a lavorare a un nuovo romanzo».
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