Festival del libro di Torino al via. Tahar Ben Jelloun parla della sua ultima fatica

Tahar Ben Jelloun
di Renato Minore
5 Minuti di Lettura
Mercoledì 9 Maggio 2012, 21:29 - Ultimo aggiornamento: 10 Maggio, 22:50
TORINO - Scrittore marocchino di lingua francese. Questa definizione di Tahar Ben Jelloun sintetizza il percorso di un uomo che, a soli 5 anni, entrato nella scuola coranica di Fez e a 45 ha vinto il Premio Gouncourt. Tra i due eventi, c’è stato il liceo francese di Tangeri, un campo di disciplina, quindi l’esilio scelto quando nel 1967, in Marocco, fu presa la decisione di far studiare in arabo la filosofia, materia che lui insegnava.



Con le stimmate letterarie dello scrittore arabo, o del romanziere francofono, Ben Jelloun è così diventato nel corso degli anni, degli incontri e dei libri il narratore instancabile delle miserie e delle grandezze del piccolo popolo del Maghreb. Ora il suo ultimo libro "Fuoco", appena pubblicato da Bompiani (78 pagine, 8 euro), è dedicato a un piccolo eroe, Mohamed Bouazizi, che si dà fuoco il 17 dicembre 2010. Un gesto orgoglioso e disperato che accende la miccia della rivoluzione dei gelsomini in Tunisia e diventa il simbolo della primavera araba. Tahar Ben Jelloun, in un racconto intenso e poetico, ricostruisce i giorni che hanno preceduto questo sacrificio.



La storia di un ragazzo moderato, con meno di trent’anni e una laurea, innamorato di una coetanea che sogna di sposare appena avrà i soldi per il matrimonio. L’improvvisa perdita del padre lo costringe invece a pensare alla famiglia e a farsi per necessità venditore ambulante di frutta. La vita di strada si rivela crudele con lui, che non può permettersi di corrompere la polizia perché tolleri il suo carretto abusivo, e la lotta in nome della madre e dei fratelli più piccoli si scontra con una realtà troppo ostile. Stremato e disperato, senza più fiducia nel futuro, decide di darsi fuoco per attirare l’attenzione del mondo e cambiare le regole del gioco. Tahar Ben Jelloun sarà uno dei protagonisti del Salone del Libro che si apre il 10 maggio a Torino, dove il suo libro sarà presentato da Francesca Paci in anteprima. Per l’occasione l’abbiamo intervistato su alcuni temi che nascono dalla lettura di “Fuoco”.



Lei diffida delle rivendicazioni identitarie ma considera necessario vivere in armonia con le proprie radici. Può spiegare meglio il suo pensiero?

«Per vivere in armonia bisogna sapere chi siamo. Imparare a vivere insieme è una pedagogia quotidiana fondata sul rispetto dell'identità di ciascuno. In Francia la destra ha posto la questione dell'identità nazionale, è un modo per escludere chi non è figlio di genitori francesi. Attualmente la Francia deve riconoscere l'identità francese di milioni di bambini nati da genitori immigrati».



Nel suo libro precedente "La rivoluzione dei gelsomini" lei spiega come in passato vi siano già stati molti tentativi di rivolta nei paesi arabi, ma come la repressione avesse sempre avuto la meglio. Cosa è cambiato questa volta?

«Da mezzo secolo i paesi arabi sono governati da dittatori. In Egitto, ad esempio, c'è sempre stata un'opposizione al potere che è sempre stata repressa severamente. Lo stesso si può dire per la Siria, l'Iraq di Saddam, l'Algeria e anche il Marocco di Hassan II. Da tempo aspettavamo un'esplosione. E' arrivata da un paese dal quale non lo avremmo mai immaginato. Questa rivolta ha avuto come effetto la caduta dei dittatori ma non ha portato a una rivoluzione veramente democratica. Attualmente siamo obbligati a passare la tappa islamista che ha approfittato della tecnica democratica ma non della democrazia come valore».



La rivoluzione dei Gelsomini, un anno dopo e qualcosa di più. Quale è il bilancio secondo lei di questa lotta?

«Paradossalmente le rivolte hanno avvantaggiato la regressione islamista e hanno dato ai giovani europei e perfino americani la volontà di indignarsi contro i danni del capitalismo liberale. La primavera araba tende a diventare universale. Il fatto che l'Islam sia diventato la costituzione di alcuni di questi paesi è solo una tappa del cambiamento. Bisogna tenere conto delle rivoluzioni dei giovani un po' ovunque. La vittoria di Hollande è dovuta anche all'indignazione di questi giovani».



Da allora sono nati movimenti come gli indignados e perfino Occupy Wall Street, mentre il Dimostrante è l’uomo dell’anno sulla copertina di Time.

«La crisi mondiale è d'ordine morale e non unicamente finanziario. Per questo le rivoluzioni arabe sono state una risposta contro la corruzione che caratterizza i regimi, contro il nepotismo e il furto. I manifestanti reclamano giustizia e dignità, in questo senso si tratta di una rivoluzione etica. L'islamismo ha vinto perché si è sempre presentato come il sistema capace di ripristinare i valori morali. In Marocco, ad esempio, il governo islamico ha avviato una lotta contro la corruzione nel paese».



Parlando della «rivoluzione dei gelsomini» innescata dal suicidio di Mohamed Buazizi, venditore ambulante tunisino, lei ha usato l’espressione «rivoluzione etica». Cosa intende? La storia di Bouazizi è un omaggio ai milioni di uomini e di donne scesi in piazza? In «Par le Feu» immagina la vita di Bouazizi e fa riferimento a «Ladri di biciclette». La lezione neorealista può essere attuale?

«"Fuoco" è stata la mia visione letteraria di un problema politico. Mi sono ispirato al film Ladri di biciclette di Vittorio De Sica per raccontare la storia di un giovane che diventa eroe senza saperlo. Ho dato una visione universale a un fenomeno sorprendente perché non appartiene alla cultura arabo-musulmana. Bouazizi è diventato un simbolo che va al di là delle frontiere».



Perché è così difficile accostare i termini “mondo arabo” e “democrazia”? Si riuscirà mai a tenere, come dice lei, l’Islam solo nel cuore e nelle moschee? In cosa hanno fallito l’Occidente e soprattutto l’Europa nel cambiamento sulla sponda sud del Mediterraneo? Cosa non abbiamo capito e quali interessi sono in gioco?

«La democrazia e la religione non si amano, anche se vi sono state delle democrazie cristiane abbiamo visto che sono fallite. Lo stesso può dirsi per le "democrazie musulmane". La vera democrazia è innanzi tutto la laicità. Spesso il mondo arabo ha utilizzato la religione per mascherare la sua incapacità di governare degnamente. Oggi Bashar al Assad massacra il suo popolo facendo credere che lui sia la migliore alternativa contro l'islamismo. Ma come suo padre, lui è un grande criminale che ha sempre governato attraverso la paura. Questo dittatore è sostenuto dai suoi simili, Putin, gli iraniani, i cinesi e i nord coreani. Oggi è una guerra civile quella che è in corso in Siria. Guerra che avremmo potuto evitare se Bashar avesse deciso di ritirarsi degnamente. Ma la sua natura criminale è più forte della dignità. Il caso della Siria ha reso la primavera araba un inverno sanguinoso».
© RIPRODUZIONE RISERVATA