"Wild", le emozioni sottovoce della selvaggia Reese Whiterspoon

"Wild", le emozioni sottovoce della selvaggia Reese Whiterspoon
di Fabio Ferzetti
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Venerdì 3 Aprile 2015, 19:26 - Ultimo aggiornamento: 19:27
Una giovane molto confusa con uno zaino troppo pesante parte per un viaggio al di là delle sue forze Ma contro ogni logica e previsione ce la fa. Riesce ad alleggerire il proprio bagaglio, in senso concreto e figurato. Impara a conoscere le proprie risorse e quelle degli esseri che incrocia sul suo cammino, umani o animali che siano. Doma poco a poco il coro assordante di voci che la assedia dall’interno fino a ritrovare la propria. Tanto da unirsi, in una scena semplice e toccante come tutto il film, al coro di versi e ululati che scandisce le sue notti solitarie in tenda sul Pacific Crest Trail, 4.286 chilometri tra il Messico e il Canada (anche se ne farà a piedi ”solo” 1100).



Tratto dall’omonimo e ispirato bestseller autobiografico di Cheryl Strayed (ed. Piemme); sceneggiato con equilibrio e partecipazione da Nick Hornby, che si è identificato in Cheryl perché proprio come lui non aveva nessuna esperienza di trekking; diretto dal regista-rivelazione canadese di “C.R.A.Z.Y.” e “Dallas Buyers Club”, dominato dalla presenza magnetica di Reese Witherspoon, “Wild” può esser visto come una versione femminile e non tragica di “Into the Wild” di Sean Penn. Che a sua volta deriva da una lunga tradizione soprattutto americana di film e memoir dedicata al confronto con una Natura selvaggia quanto prodiga di insegnamenti, per chi sappia ascoltarla.



La vera differenza è nel peso soverchiante del passato (soverchiante per Cheryl, non per lo spettatore), che il libro concentra nei primi capitoli e il film dissolve in una lunga serie quasi allucinatoria di ricordi innescati da un gioco di libere associazioni che alleggerisce e insieme rinforza la struttura del racconto.



In questi continui flashback, accompagnati da una colonna sonora discreta e efficacissima, prende forma la storia che rischia di soffocare Cheryl come quello zaino debordante, la malattia di una madre molto amata e morta troppo giovane (Laura Dern, radiosa di innocenza e ostinazione), il matrimonio precoce e sbagliato, i tradimenti a catena, la caduta nell’eroina. Ma senza che il film ceda un solo momento al ricatto delle emozioni o dell’estetica.



Nessun paesaggio è troppo bello o romantico, nessun errore è tanto grave da non poter essere capito e accettato, senza per questo cancellarlo, per andare avanti. Come se solo questa musica quieta, questo viaggio anzitutto interiore, potessero rendere la forza straziante, la dolorosa dolcezza di uno degli amori meno indagati e raccontati dal cinema. Quello tra una figlia e una madre.
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