Paolo Ricci Bitti
Rugby Side
di Paolo Ricci Bitti

Ode su un giocatore di rugby Mauro Bergamasco “Bellezza è verità, verità è bellezza”

di Paolo Ricci Bitti
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Sabato 10 Ottobre 2015, 02:24 - Ultimo aggiornamento: 12:22


Diciassette anni fa di anni ne aveva 19 Mauro Bergamasco quando, ricevuto il primo pallone sul prato di Huddersfield puntò a muso duro il pilone di cemento Jason Leonard, leggendario campione dell’Inghilterra e dei Lions. Non passò la linea del vantaggio, il ragazzino debuttante, ma nemmeno perse la palla e Leonard andò poi a stringergli la mano, anche perché solo una colossale svista arbitrale negò agli azzurri di Coste e Giovanelli (e Bergamasco) una clamorosa vittoria.




Jason e Mauro: deo e ancora comune mortale uno di fronte all’altro, anzi no, perché il cubo di roccia inglese era anche campione di umiltà: “Mi chiedono spesso dell’Inferno vissuto dai piloni in prima linea, della fatica che ci viene chiesta per giocare in questo ruolo così pesante, ma di fatica dovete andare a parlare con i muratori, chi con chi sta alla catena di montaggio, non con noi fortunati che giochiamo a rugby, adesso venendo persino pagati”. E forse non è stato un caso che Mauro Bergamasco, non ancora Maurò e nemmeno BergaMauro, abbia iniziato la lunga carriera sbattendo contro i muscoli e il carattere di un tipo come Leonard, 23 imbattibili presenze ai Mondiali. Affinità elettive.

Chi potrà mai dimenticare il piglio di quel ragazzo biondo che in quel felice autunno del 1998, lo stesso in cui nacque il mio terzo figlio, entrò nel mondo della nazionale di rugby su un prato inglese per uscirne 17 anni dopo dopo, sempre su un prato inglese, carico di gloria e di record difficili da battere: la maglia azzurra più longeva, la più lunga carriera in assoluto nel torneo delle Sei Nazioni (risalendo fino al suo avvio, nel 1883, ovvero scalzando fior di assi anglosassoni), cinque mondiali (da quello attuale in Inghilterra, in cui il destino e il ct Brunel gli hanno negato il match di addio, a quello del 1999) come solo al samoano Brian Lima è stato concesso.

Avanti allora, solo sul filo dei ricordi.

Il capitano Giovanelli che presenta il ragazzino Mauro agli altri sgherri in azzurro: “Da oggi lui è uno dei nostri, chiaro! Ce lo ha affidato Georges, guardiamogli le spalle”.

Il padre Arturo, 4 caps, che spiega: “Sì, Mauro ha fatto anche ginnastica artistica prima del rugby”.

Le costole rotte contro l’Inghilterra nel match di apertura del mondiale 1999: imparerà a non mostrare mai più il fianco.

L’anulare della mano destra, piegato per sempre a uncino perché di frattura in frattura non ne può più.

La meta alla Scozia a Murrayfield, nel 2001, con quella lunga fuga a sinistra e la finta grandiosa che lasciò di sale l’estremo avversario.

La meta con la maglia blu elettrico e i fulmini dello Stade, i lunghi capelli biondi che ondeggiavano di qua e di là, con una fuga ancora più lunga e con una finta che ingannò anche l’esperto cameraman di France 2: la voce estasiata (“Maurò, Maurò”) del telecronista francese risuonerà sempre nelle orecchie.

La meta decisiva al Galles al Flaminio su calcetto di Pez che poi forse mi confondo con Mirco, ma che importa, resta tutto in famiglia.
Le foto agli inni abbracciato a Mirco: Fratelli d’Italia.
Le foto nude look del calendario Gli dei dello Stade: arrossì anche Serena Dandini.

“Ma lì conosci davvero i fratelli Bergamasco? ” la domanda riecheggiata millanta volte da femmine di ogni età. Seconda parte della domanda: “E quando ce li farai conoscere?”.

La meta di rapina sempre alla Scozia nel 2007, quella che diede il via al più incredibile sacco azzurro di Murrayfield.

La consacrazione da parte di Stephen Jones, prima firma del rugby britannico: “Mauro Bergamasco merita un capitolo in ogni storia del Sei Nazioni”

La disponibilità a farsi sempre intervistare. Sempre. E senza rifugiarsi nelle frasi fatte, nelle banalità, anche e soprattutto dopo quei match deprimenti in cui non c’era proprio nulla da dire.

Vittorio Munari che spostò quell’adoloscente del Petrarca Padova dal ruolo di mediano di apertura a terza linea.

John Kirwan che lo volle far giocare trequarti ala ai Mondiali in Australia.

Nick Mallett che lo volle far giocare mediano di mischia a Twickenham.


Il cerchio degli azzurri, raccattati uno per uno da Mauro sul prato bagnato di pioggia e di lacrime, dopo il fischio finale a Saint Etienne: non era il capitano ma solo lui, in quel momento di dolore totale, se la sentì di guardare tutti negli occhi per garantire che la storia non sarebbe finita quel giorno.

Il sorriso mai negato ai bambini che lo circondano per gli autografi.

Il senso di responsabilità nei confronti degli ultimi arrivati in squadra.

L’aver sempre rappresentato il rugby italiano con classe, intelligenza, leggerezza e persino ironia (davvero non da tutti) anche fuori dal campo.

I due scudetti a Treviso e due scudi di Brenno a Parigi.

Le mille idee “che non basta il Pil” a realizzarle.

L’essere l’ultimo superstite in campo dell’indimenticabile banda di Georges Coste.

La tenacia, oltre ogni infortunio, oltre ogni delusione, come quella di non essere in campo domenica contro la Romania a Exeter in quello che sarebbe stato il suo ultimo match che invece è stato, suo malgrado, nostro malgrado, Irlanda-Italia a Londra. Ma nessuno poteva immaginarlo.

Lo sguardo che non nasconde nulla, sempre quello di 17 anni fa, solo più accerchiato da rughe e cicatrici.

La stupefacente somiglianza tra il suo volto teso nel cantare Mameli e il bozzetto di un personaggio della Battaglia di Anghiari di Leonardo Da Vinci. (Nel libro Inside Rugby del fotoreporter Massimiliano Verdino)

La ancor più stupefacente somiglianza tra un suo placcaggio e i corpi avvinghiati in un fregio del Partenone (Idem), lo stesso che ispirò il poeta inglese John Keats per Ode su un’urna greca: “Bellezza è verità, verità è bellezza”.

Caro Mauro, se possibile, se vuoi, sbrigati, per favore, a farci sapere che cosa farai adesso che il rugby non lo giochi più.

@paoloriccibitti
 

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