Paolo Ricci Bitti
Rugby Side
di Paolo Ricci Bitti

1914-2014: il morto-vivente nel match degli orbi - Parigi, il fascino irresistibile del rugby delle rugbyste

di Paolo Ricci Bitti
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Giovedì 7 Agosto 2014, 18:26 - Ultimo aggiornamento: 1 Dicembre, 21:02
Anche senza un occhio, e con parecchie cicatrici sul corpo, loro erano tornati in campo. Due con la maglia bleu, tre con il cardo sul cuore. Primo gennaio 1920, stadio di Colombes, Parigi. Con la Francia ci sono Marcel Frédéric Lubin-Lebrére (il morto-vivente della battaglia della Somme) e Roberto Thierry, con la Scozia ecco Jenny Hume, Arthur Laing e Jock Wemyss. Non era stato facile, per i ct, assemblare quelle squadre per il primo Torneo delle Cinque Nazioni del dopoguerra. I francesi avevano perso 23 internazionali nelle trincee, gli scozzesi 38: così fu normale chiamare anche quei cinque orbi tra i quali faceva sensazione Lubin-Lebrére, seconda linea dello Stade Toulousain e torreggiante fante di prima classe del Secondo Reggimento. Il 22 agosto 1914 viene colpito da otto (8!) pallottole tedesche durante la battaglia della Somme: i compagni lo lasciano sul terreno, credendolo morto. Invece il gigante, recuperato dai barellieri nemici, è ancora vivo e viene fatto prigioniero. Si rimette talmente bene che nel campo di prigionia di Darmastad riesce a farsi arrivare una palla da rugby per fare qualche partita tra le baracche e i reticolati. E il primo gennaio del 1920 Lubin-Lebrére è pronto a giocare per la Francia, a battere in quel Torneo l'Irlanda e, in seguito, a vincere tre scudetti con il Tolosa. Questa storia del “match degli orbi” mi è tornata in mente per due motivi: il secondo è la notizia, raccontata dal mediano di mischia-cronista Massimo Calandri su Repubblica, sull'arrivo in Italia di Florian Cazenave, 24 anni, ex Perpignan e promessa per la nazionale con la maglia numero nove. Per un banale incidente domestico ha perso l'occhio sinistro e, dopo convalescenza e allenamenti specifici per allargare il campo visivo dell'occhio superstite, sperava di tornare nel Top 14. Macché, in Francia non lo fanno giocare per questioni assicurative. E allora, grazie anche all'aiuto del ct Jacques Brunel, ripartirà dai dilettanti del Reggio Emilia (serie A, in realtà serie C). Giocherà con speciali occhiali messi a punto in Italia e in corso di sperimentazione. Nel 1920 i goggle glas non c'erano, e nemmeno i problemi assicurativi: il progresso a volte fa fare passi indietro. come diceva anche Manzoni. Il primo motivo è invece la domanda sul fatto che la “nazionale azzurra perde sempre e che il rugby italiano non migliora” e via lamentando. Certo, di errori di gestione il rugby italico ne ha commessi a bizzeffe, ma pur con tutta la buona volontà manca sempre, rispetto agli avversari intanto del Sei Nazioni, qualcosa che non si potrà mai avere e che - ci si creda a no – continuerà a pesare nel cammino della nazionale. L'Equipe Mag, su storie come quella del match degli orbi, ci ha fatto un numero intero in occasione del centenario dell'inizio della Grande Guerra. E' qualcosa che toglie il respiro tanto è struggente. E magnifico. Il 25 aprile 1925, a Tolosa, all'inaugurazione del monumento ai caduti di guerra dello Stade, davanti a migliaia di persone in silenzio, uno per uno sono stati chiamati i nomi degli 81 giocatori scomparsi. E lo stesso Lubin-Lebrére ha risposto “presente” per 81 volte. Il sacrificio di tanti sportivi, non solo rugbysti, alcuni divenuti eroi nazionali, ha poi cementato la tradizione dell'orgoglio e del valore che noi italiani stiamo faticosamente costruendo e in un ambiente che spesso non ama ricordare questi temi. La prima nazionale azzurra è scesa in campo nel 1929 anche se in Italia si è giocato qualche match, ufficiale o meno, dal 1901. Sì, sarebbe bello, in attesa di onorare i rugbysti italiani morti nella seconda guerra mondiale, rintracciare qualche figlio o nipote dei quei pionieri rugbysti che per noi hanno lasciato la pelle sul Carso o nelle trincee gelate dell'Adamello. Parigi, il fascino irresistibile del rugby delle rugbyste Una boccata di ossigeno, un'escursione sui passi delle Dolomiti, ovvero, perché in questi giorni sarebbe meraviglioso essere a Parigi per guardare dal vivo il mondiale di rugby femminile invece di cavarsi gli occhi sullo streaming. E' un rugby contagioso, poco arzigogolato, immediato, a volte un po' naif, a volte durissimo. Sempre trascinante. Esagero: è come rivedere i match del Cinque Nazioni degli anni 70, dell'era dorata del Galles. Un sacco di mete, quasi sempre senza andare oltre la terza fase; mischie che non crollano dieci volte di seguito per lucrare un noiosissimo penalty; molto spazio ai trequarti; grandi doti tecniche; exploit clamorosi come la vittoria, mai riuscita ai maschi, dell'Irlanda sulla Nuova Zelanda, imbattuta ai mondiali fin dalla prima edizione del 1991; gesti gentili come gli applausi in campo che le giocatrici kazake hanno riservato alle neozelandesi per la loro Haka prima di essere travolte da una marea di mete. Ve li immaginate quegli applausi, sinceri, in campo maschile? Gli All Blacks potrebbero persino essere presi in contropiede. Il rugby femminile, con questo mondiale, uscirà definitivamente dall'angolo del pregiudizio e dobbiamo sentirci tutti un po' colpevoli, noi rugbysti maschi, del peccato di sufficienza. Un altro boom ci sarà nel 2016 alle Olimpiadi di Rio, con il torneo Seven. In questo rugby in arrivo da Parigi non è così determinante il fisico, non contano le montagne di muscoli messi su nelle cayenne delle palestre: contano l'abilità nell'aggirare l'avversario, nel far uscire in fretta il pallone dalle mischie, il gioco al piede ma senza il ping pong tra gli estremi che fa venire il torcicollo. La tecnica prevale sulla forza, il kilo-rugby resta fuori, per fortuna, da queste arene. Ed è un piacere vedere questo rugby pensando anche che tra i maschi ormai ben poche partite ad alto livello sono entusiasmanti come Warathas-Crusaders. Quello che non conta, per la diffusione anche televisiva di questo rugby, sono invece le dimensioni delle divise da gioco: questo rugby piace perché è bello da vedere, ma non nel senso “allargato” riservato al beach volley e alle sue ricercate e insistite zoomate delle telecamere sulle terga delle giocatrici. Magali Harvey, ala canadese, è un portento anche al piede; Lidya Thompson, ala inglese, è capace di sprint fenomenali; Corey-Jane Morgan, centro australiana, ha costruito una meta con un calcetto a scavalcare da urlo, Maggie Alphonsi, poderosa terza linea inglese, è agile come una ballerina. Non mancano terrificanti placcaggi, ben orchestrati carrettini, qualche decoy run (le finte della prima linea dei trequarti) e piani di gioco ben strutturati (vedi l'Inghilterra) ma, in generale, si pensa  a creare il soprannumero per liberare l'ala invece di fare a capocciate. Retrò? Banale? Guardate una di queste partite prima di rispondere. La verità e che ci sono, in questo rugby, un'armonia e una freschezza divenute merce rara tra i maschi.. P.S. No, l'Italia non c'è Parigi, tagliata fuori da un cervellotico regolamento che ha fatto avanzare squadre esplicitamente più deboli di Veronica Schiavon e compagne. C'è però, vestita da arbitro, con la bionda coda di cavallo che oscilla su e giù lungo la linea di touche, la romana Maria Beatrice Benvenuti, 21 anni, di gran lunga la più giovane nel panel dei fischietti selezionati dall'International Board. Maria “Bea” è un talento assoluto fra i dirittore di gara ed è già sulla lista dei (molto) possibili anche per il torneo seven alle Olimpiadi in Brasile. PP.SS. Perché, come nel basket, nel rugby femminile non si usa un pallone leggermente più piccolo, ovvero il n.4 invece del n.5? Non ne guadagnerebbe l'handling?
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