Quest'America
di Anna Guaita

 Quando è papà a curarsi dei bambini

3 Minuti di Lettura
Lunedì 10 Novembre 2014, 00:00
  Ricordate il film Baby Boom? Era un film – un po’ cretinetto – degli anni Ottanta, in cui Diane Keaton impersonava una tipica donna in carriera, durissima, aggressiva, in gara con un mondo di uomini. Poi le capitava di “ereditare” una bambina, pian pianino le si affezionava, con il risultato che veniva licenziata. Le cose sono un po’ migliorate da allora, tant’è che il 70 per cento di donne che hanno bambini è inserito nella forza lavoro (come vadano le loro carriere è tutto da controllare). Se i boss disapprovano, non lo possono più dire ufficialmente. Per quanto rimangano un sacco di ostacoli, difficoltà e discriminazioni, la mamma in carriera è molto più protetta di com’era 30 anni fa. Invece chi soffre ora di discriminazione, è papà. Gli “stay home dads”, i papà che scelgono di stare loro a casa a badare ai bambini, mentre la moglie va in ufficio e guadagna il pane, sono guardati con diffidenza. Secondo l’ultimo censimento, oramai sono tanti, più di due milioni. E hanno anche fatto una pubblica richiesta perché si smetta di chiamarli “Mr.Mom”, “signor mammo”, dal titolo di un altro film, con Michael Keaton, anch’esso degli anni Ottanta. “Noi non siamo mammi, siamo papà” insistono. La loro scelta spesso nasce da necessità: molti si sono ritrovati senza lavoro sull’onda della crisi del 2008, mentre la moglie è sopravvissuta al massacro. La ricaduta sembra però essere buona per la famiglia: la carriera delle mogli sostenute dai mariti fiorisce e si rafforza, i bambini crescono più sicuri e tranquilli, e l’economia della famiglia migliora. La maggior parte dei papà casalinghi si dice felice di poter crescere i propri bambini. E la scienza conferma che la presenza del padre accanto ai piccoli crea un legame che aiuta entrambi. L’impegno degli uomini è un elemento di estrema importanza in un Paese in cui almeno 15 milioni di bambini (cioé un bambino su tre) crescono in case in cui i padri sono assenti, e sono per questo condannati quasi sicuramente a una vita di povertà. Nonostante questi dati, i papà-a-casa sono comunque guardati con ironia e scetticismo. E non sono solo loro a essere oggetto di diffidenza: nelle aziende con più di 50 dipendenti, la legge vorrebbe che i padri possano ottenere un congedo non pagato, una-tantum, per “paternità” in occasione della nascita di un figlio. Ci sono aziende, soprattutto nel mondo di Silicon Valley, dove la forza lavoro è più giovane e in età fertile, che offrono più delle sei settimane di rito, e arrivano a otto. E tuttavia il numero degli uomini che osa avvantaggiarsi di questa possibilità è limitato. Per di più, chi si avvale del congedo, raramente supera una settimana lontano dal lavoro. E il motivo? Lo stesso che condannava la carriera di Diane Keaton nell’87: se un uomo d’affari, un avvocato, un ingegnere, un programmatore, un pubblicitario, se ne sta a casa un mese e mezzo quando nasce un figlio, “ovviamente considera la famiglia più importante del proprio lavoro e dei propri clienti”, lamentano i boss. Nella realtà dell’aggressivo capitalismo contemporaneo, va bene – a mala pena – che una donna metta la famiglia prima del lavoro. Ma un uomo? E’ chiaro che la società non è ancora pronta a concedere ai padri il diritto di stare accanto ai bambini, come le mamme. Quando la scorsa primavera, all’inizio della stagione, il giocatore di Baseball dei New York Mets, Daniel Murphy, sfuttò il diritto (ottenuto dal sindacato) di prendersi tre giorni di permesso per stare al fianco della moglie Tori, che partoriva il primo figlio, Noah, i commentatori furono feroci: “Io le avrei dato un aut aut: parto cesareo prima dell’inizio della stagione, perché devo essere alla prima partita” sbottò Boomer Esiason. E il noto Mike Francesa rincarò la dose: “Posso capire un giorno, per vederlo nascere (anche se una volta non si faceva neanche quello). Ma poi basta, assumi un’infermiera se tua moglie ha bisogno di aiuto”.
© RIPRODUZIONE RISERVATA