Quest'America
di Anna Guaita

 Essere genitori di un figlio pluri-omicida

5 Minuti di Lettura
Sabato 16 Maggio 2015, 00:33
NEW YORK – Da giorni siedono in silenzio, uno accanto all’altra. Seguono il procedimento, sapendo che dietro di loro una folla li guarda, alcuni con odio, altri con diffidenza, e solo pochi con pietà. Arlene e Robert Holmes sono i genitori del giovane che il 20 luglio del 2012, allora 24enne, entrò in un cinema di Aurora, nel Colorado dove si proiettava un film di Batman, cominciò a sparare, uccise 12 persone e ne ferì 70, alcune così gravemente che non sono mai tornate normali. Il processo è cominciato in aprile e durerà circa cinque mesi. La difesa sostiene che Holmes era infermo di mente e dovrebbe essere ricoverato in un ospedale psichiatrico, l’accusa sostiene che era normale e si merita la pena di morte. E’ un processo di una tragicità indicibile. Le immagini dei morti, fra questi una bambina di sei anni, le testimonianze raggelanti dei soccorritori, il pianto di un poliziotto nel ricordare il sangue, gli spaventosi selfie di Holmes con lenti a contatto nere e capelli giallo arancio: il tutto viene snocciolato in un crescendo dell’orrore davanti agli occhi del pubblico. E soprattutto dei suoi genitori. Holmes siede in un banco davanti a loro: mai, neanche una volta si è girato a guardarli. Mai, neanche una volta ha tentato di parlar loro. Arlene e Robert a loro volta non guardano indietro, o di lato. Siedono rigidi. Solo di quando in quando lei china la testa verso di lui, e le si vedono le spalle tremare, in un pianto sommesso. Gli Holmes sono due noti ex-professionisti: lui è un ex matematico, lei una ex infermiera. Benestanti, hanno tirato su James nelle migliori scuole, e avevano avuto la soddisfazione di vederlo laurearsi con il massimo dei voti e poi vederlo accettato – con tanto di borsa di studio – alla facoltà di medicina dell’Università del Colorado, dove sapevano che stava frequentando la specializzazione in neuroscienze. Quel che non sapevano, poichè loro vivevano in California, e lui in Colorado, è che negli ultimi mesi prima dell’omicidio di massa, James aveva cominciato a dare segni di instabilità mentale e aveva anzi cercato e poi rifiutato aiuto psichiatrico. I genitori di Holmes non hanno mai parlato alla stampa, tranne una volta, poco dopo il massacro, quando Arlene ha spiegato che l’unico problema che James avesse mai dato loro era stata una multa per eccesso di velocità: “Ma sentiamo un senso di colpa – aveva aggiunto – perché non avevamo capito che era malato e aveva bisogno di cure”. Da quel giorno, Arlene ha cominciato a scrivere un libro di preghiere, unico commento pubblico alla tortura di ritrovarsi madre di un multi-omicida. Gli Holmes non sono come la madre di Adam Lanza, il 20nne che compì il massacro della scuola elementare di Newtown in Connecticut nel dicembre del 2012: Nancy Lanza sapeva che il figlio aveva seri disturbi della personalità, ma rifiutò di fargli continuare una cura psichiatrica e fargli prendere i farmaci antipsicotici e invece lo teneva sempre vicino a sè, e pensava di curarlo portandolo a sfogarsi al poligono di tiro. Nancy Lanza teneva in casa armi di ogni genere, neanche sottochiave. Fu lei la prima vittima della follia del figlio. La uccise nel sonno, prima di andare a massacrare 20 bambini e 6 maestri. E’ difficile capire Nancy Lanza, difficile perdonarne la cecità, anche se ha perso lei stessa la vita. Ma come possiamo condannare gli Holmes? Come possiamo condannare tanti altri genitori che hanno tirato su i figli in modo normale e tuttavia si sono ritrovati di colpo catapultati sulle prime pagine, sotto titoli tipo “I genitori del mostro” E ce ne sono tanti genitori così, destinati a soffrire il doppio: non solo il loro figlio è morto, ma ha causato la morte di altri innocenti. Alcuni avevano avuto sentore che il figlio stava perdendo la ragione: il padre e la madre del 22enne Elliot Rodger, che nel maggio dell’anno scorso ha ucciso sei persone e ne ha ferite 14 all’University of California, a Santa Barbara, avevano varie volte allertato la polizia perché il loro figliolo, diventato maggiorenne, aveva di sua volontà cessato ogni forma di assistenza psichiatrica e stava discendendo in un vortice pericoloso di violenza. Lo stesso avevano tentato di fare i genitori di Seng Hui Cho, lo studente di origini sudcoreane che ha massacrato 33 persone all’Università Virginia Tech nel 2007. Altri genitori sono rimasti assolutamente di sale davanti alla violenza condotta dal figlio: la signora Johnson ricevette dagli insegnanti di Mitchell una lettera di apprezzamento sul suo carattere e il suo rendimento scolastico appena due mesi prima che il 13enne ammazzasse quattro suoi compagni di scuola e un insegnante e ferisse altre dieci persone. I genitori dei due mass murderer del Liceo Columbine (Colorado, 1999) Wayne e Kathy Harris, e Tom e Sue Klebold hanno varie volte sfogato la loro disperazione e un inevitabile senso di colpa, ma hanno sempre sostenuto: “La gente ci chiedeva come diavolo avessimo tirato su i nostri figli. La risposta è semplice, li abbiamo tirati su come tutti gli altri, non c’era stata nessuna differenza”. Nello studiare queste storie, diventa penosamente chiaro che solo in rarissimi casi – Nancy Lanza, ad esempio – i genitori non hanno avuto vere colpe, non rivestono reali responsabilità morali. Hanno magari commesso degli errori, ma errori che tutti possiamo compiere, solo che loro sono stati tragicamente sfortunati. Lo spiega bene la filosofa Claire Creffield: “Anche i genitori che hanno le migliori intenzioni talvolta sono troppo stanchi, distratti, male informati, o anche semplicemente impigriti”. Se saranno fortunati “i loro figli cresceranno senza compiere terribili crimini, e quindi questi comuni errori, tipici del mestiere di genitore, verranno dimenticati, invece di diventare l’anticamera di un orrore”. E così torno ai genitori di Holmes, che ogni giorno, senza fallo, siedono in tribunale per seguire il processo del loro figlio pluri-omicida. Obiettivamente, non si può dare loro alcuna colpa. Ma è ovvio che avvertono su di sè una terribile responsabilità morale e non intendono sottrarvisi. Si presentano in pubblico, proprio per assumersi questa responsabilità, statue di pietra senza speranza. Quando il processo è cominciato, Arlene ha scritto una piccola preghiera: “Non siamo gente famosa. Siamo persone che piangono, come tutti gli altri in aula, ma come nessun altro in aula perché noi siamo i genitori, e nessun altro è come noi”.
© RIPRODUZIONE RISERVATA