Il romanzo, ambientato nei giorni immediatamente precedenti alle Olimpiadi di Berlino, deve il titolo a quelle “violette di marzo” così chiamate perché decisero di appoggiare all’ultima ora il partito nazista. La capitale del Terzo Reich cerca di darsi un’apparenza rispettabile, per rassicurare il mondo; ma il Male cova sotto la cenere, ed è tutt’altro che disoccupato. Bernie Gunther, l’iconico detective privato protagonista, è un ex poliziotto della Krimi, che ha chesto il congedo per non essere costretto a sporcarsi le mani. C’è molto lavoro, per lui, nella ricerca di “persone scomparse”; e spesso si tratta di ebrei sulla cui sorte, purtroppo, non possono esserci molti dubbi.
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Gunther è freddo e distaccato: «Dopo avere visto tanti morti sul fronte turco e quando ero alla Kripo, avevo finito per non considerare più i cadaveri come qualcosa di umano», ricorda. Ma le sue battute sono perfide, irresistibili; il suo sprezzo del pericolo è molto prossimo all’incoscienza, e non ha paura di nessuno. Abituato a cavarsela, e a trarre il meglio dalle situazioni più difficili, affronta il caso che gli viene proposto da un ricco industriale, Hermann Six. La figlia Grete e il marito - anche lui nazionalsocialista dell’ultima ora - sono stati uccisi; e la loro casa data alle fiamme. Ma il magnate non sembra tanto interessato a vendicarli, quanto a tornare in possesso di una preziosissima collana di diamanti, che risulta sottratta prima del rogo da una cassaforte. Cosa si cela dietro questa richiesta?
“Violette di marzo” è un grandissimo noir, e insieme un eccellente romanzo storico; con perle di umorismo (anch’esso nero) intessute con sapienza nell’intreccio. Un omaggio di Kerr al suo idolo, Raymond Chandler, e al genere “hardboiled” che proprio negli anni Venti e Trenta andavano per la maggiore. Lo stesso Hermann Göring, che convoca Gunther per incaricarlo a sua volta di un’indagine, chiede al protagonista se lo abbia mai letto: «Le porterò l’edizione tedesca di Red Harvest. Le piacerà».
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Nessuno era riuscito a raccontare così bene e con tanta ricerca storica la Berlino dell’epoca, che appare al protagonista come «una grande casa infestata dai fantasmi, piena di angoli bui, lugubre scale, sinistre cantine, stanze chiuse a chiave e la soffitta zeppa di poltergeist in libertà, che scagliano libri, sbattono porte, spaccano vetri, urlano nella notte, spaventando a tal punto i proprietari da indurli, talvolta, a vendere tutto e andarsene».
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