Il suo libro è un romanzo di altri tempi, come non se ne leggono più. Cosa l'ha ispirata?
«I grandi autori dell'Ottocento siciliano, I Viceré di Federico De Roberto, Il Gattopardo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa e, per quanto riguarda lo stile, Verga: un punto di partenza fondamentale per capire come entrare nella testa dei personaggi».
Balzac diceva che, per conoscere la vita, bisogna sporcarsi le mani.
«Sono assolutamente d'accordo. Dico di più: Ivano Porpora, autore Marsilio, mi diceva che bisogna avere il coraggio di scrivere a piedi nudi, per sentire meglio le sensazioni».
E lei lo fa?
«Devo ammettere che io, anche in pieno inverno, scrivo scalza».
Perché ha deciso di raccontare proprio questa storia?
Ci sono dei momenti in cui mi sono detta: chi te l'ha fatto fare? La mole di materiale è talmente abbondante che ti fermi e dici: no, è una follia. Fu un amico a suggerirmi di scrivere una saga familiare; ma io ero dubbiosa, che m... dici? gli ho risposto. Poi ho cominciato a guardarmi intorno e mi sono reso conto di quanto fosse affascinante la storia dell'ascesa dei Florio. Vincenzo era un vero capitano d'industria, con una visione del mondo e dell'economia molto moderna. Più leggevo di lui e più lo amavo».
Quanto ci ha messo a scrivere I leoni di Sicilia?
«Tre anni, tra ricerca e scrittura. La prima parte sentivo che non girava bene e allora, con un atto di coraggio - perché si trattava di settanta pagine - l'ho riscritta tutta».
Come ha fatto a conciliare il lavoro con la scrittura?
«Mi sveglio alle 5 meno un quarto; lavoro prestissimo la mattina e poi mollo il computer, cerco di mettere un po' di ordine e vado a scuola: sono un'insegnante full time in un istituto superiore, un alberghiero, in un quartiere non semplicissimo, nella zona dei cantieri navali. A casa, a volte devo aspettare di usare il pc perché uno dei miei due figli sta guardando una serie su Netflix».
Alunni difficili?
«Quella che seguo io personalmente è una ragazza dolcissima e una forte lettrice. Ma la situazione non è facile. I ragazzi non hanno libri perché non possono permetterseli...»
In un'era di autofiction e romanzi "ombelicali", lei mostra una grande empatia. È questa la chiave del successo?
«Un buon insegnante deve essere capace di calarsi nei panni dei suoi studenti, anche di quelli che sbagliano. Il mio lavoro, in questo senso, è preziosissimo».
Lei scrive: Esistono amori che non portano questo nome, ma che sono altrettanto degni di essere vissuti, anche se dolorosi.
«Una signora durante una presentazione mi ha detto: la cosa strana è che nel suo romanzo ci sono un sacco di momenti di amore e di passionalità, ma non usa mai la parola amore».
Qui lo fa. Ma, in gernerale, mostra le cose senza nominarle troppo.
«Dev'essere sempre la storia a parlare, io sono soltanto una penna al servizio dei lettori. L'amore non va detto, va vissuto e dimostrato con i fatti. Le storie a volte completano quei buchi che noi non pensiamo di avere nell'animo».
Scrivere è stato terapeutico?
«Potrei fare la scrittrice che se la tira, abbassare il tono di voce, renderlo leggermente sensuale e dire: scrivere mi aiuta a superare i miei demoni, ma siccome i demoni non li ho e mi basta il casino della mia vita, io scrivo fondamentalmente perché è una cosa che mi piace, mi diverte, e mi fa anche arrabbiare mostruosamente: quando scrivo una scena che non funziona e la vado a cancellare, sacramento peggio di un camionista».
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