Riccardo De Palo
Lampi
di Riccardo De Palo

Scott Turow: «Signori della guerra, nessuno è innocente»

Scott Turow
di Riccardo De Palo
5 Minuti di Lettura
Mercoledì 25 Ottobre 2017, 15:05 - Ultimo aggiornamento: 15:11
«Come quasi tutti gli scrittori, da quando ero bambino non ho fatto altro che leggere». Scott Turow parla con tono garbato, elegantissimo nel suo completo blu, un fazzoletto nel taschino, i gemelli dorati ai polsi. Davanti a lui, alcuni giornalisti e una pila di copie del suo nuovo thriller, La testimonianza. «In college avevo un insegnante - racconta l'autore di Presunto innocente - un poeta inglese, Tony Connor. Era il 1968, io volevo fare narrativa e gli chiesi subito consiglio. Lui veniva da Manchester e aveva un forte accento. Scott - mi disse, per mettere subito le mani avanti - io non so niente di come si scrivono i romanzi, ma se volessi provarci, mi riempirei la testa di libri».

Quale scrittore l'ha influenzata maggiormente?

«Tre in particolare. Il primo è Saul Bellow, perché anche lui era di Chicago, ebreo come me e frequentava lo stesso liceo di mio padre. Non ci avevo mai pensato prima, ma se volevo capire qualcosa di lui, sapere cosa pensasse, dovevo per forza rivolgermi a Bellow, che faceva parte del suo mondo. Poi, quando andai a Stanford, cominciai a leggere Graham Greene. Fu molto importante, perché mi mostrò come fosse possibile scrivere romanzi con la giusta dose di suspense. Infine, Dickens, un gigante che non ho mai smesso di rileggere. Cercava di fare leva sulla sua fama per cambiare l'Inghilterra, a beneficio delle classi povere; forse è stato il primo ambientalista che ci sia mai stato nel mondo occidentale».

A 68 anni presenta un nuovo genere di legal thriller, di sapore più internazionale. Il suo protagonista, l'avvocato Bill ten Boom, lascia l'America per trasferirsi all'Aja, e indagare su un massacro avvenuto in Bosnia, dove quattrocento rom sono stati uccisi. La storia è molto accurata, sembra quasi un eccidio veramente accaduto.

«C'è sempre un trucco, in tutti i misteri. A volte sei portato a condurre le indagini su un omicidio per poi scoprire che quel delitto non è mai avvenuto».

Quanta ricerca ha fatto per documentarsi?

«Almeno due anni di lavoro; ho cominciato a scrivere, poi sono venuto tre volte in Europa, in Olanda e poi otto-dieci giorni in Bosnia».

E ha continuato a scrivere mentre faceva ricerche?

«Sì, oggi si può vedere e leggere molto senza muoversi dalla propria scrivania. Le udienze della corte sono tutte online, si può facilmente seguirle in streaming. Ho finito la prima stesura e poi mi sono reso conto che avevo bisogno di vedere come fosse fatta una salina. Allora sono partito - ho ancora in casa un grosso pezzo di sale che mi regalarono allora - credevo che fosse simile a una miniera di carbone, ma non era affatto così. Ho visto un serbatoio e mi sono detto: ecco come farò scattare l'immaginazione dei lettori».

Il suo romanzo sembra fatto apposta per il prossimo film di Kathryn Bigelow.

(Ride). «Sì è vero. Ma non si sa mai come vanno a finire queste cose. Al di là dello stile e della trama, gli studios non amano acquisire il copione di un film ambientato in Europa. Sa, gli americani sono un popolo insulare, sciovinista, non molto interessato a imparare cose nuove. Qualcuno si è detto interessato, ma ancora nulla di concreto. Ci sono stati contatti, invece, con produttori europei».

Lei racconta un mondo di intrighi e sospetti.

«Il mondo è fatto così: chi è tuo amico può diventare tuo nemico e viceversa. Mentre facevo ricerca ho scoperto che tutti i dittatori del mondo hanno intrattenuto rapporti con lo stesso trafficante di armi russo, Viktor Bout (attualmente in carcere negli Usa, dove sta scontando una pena di 25 anni, ndr). Naturalmente, un buon amico di Putin. La parte finale del libro, dove si descrivono nel dettaglio questi traffici, è in gran parte basata su fatti reali. Quando si trattò di trasferire armi dalla Bosnia all'Iraq si sono rivolti a Bout, perché non c'erano più aerei americani e l'unico a poterlo fare era lui».

Anche l'America finisce sotto accusa.

«Negli Stati Uniti eravamo particolarmente all'oscuro di quanto stava succedendo al tempo della guerra in ex Jugoslavia. Un mio amico del liceo, Tom Miller, è diventato ambasciatore americano in Bosnia. Bene: presenziando alla cerimonia di apertura per il Museo dell'Olocausto a Washington, Bill Clinton - che allora era presidente - disse nel corso del discorso ufficiale che quel monumento veniva eretto affinché queste cose non potessero più succedere nel mondo. Tom si voltò verso di lui e gli disse: Presidente, in realtà sta accadendo proprio adesso. Lui cadde dalle nuvole e chiese ai suoi consiglieri di cosa parlasse il suo ambasciatore».

Ci fu un lungo scaricabarile, sul ritardo nell'intervento.

«Sì, gli americani diedero la colpa ai francesi che volevano mantenere i loro rapporti con la Serbia e continuavano a ripetere che era sempre la stessa storia che andava avanti dal quattordicesimo secolo: Non fanno altro che
ammazzarsi l'un l'altro da allora, dicevano».

I ruoli femminili sembrano un po' maltrattati. L'avvocatessa Esma pare una divoratrice di uomini, una doppiogiochista, mentre Attila è una donna un po' particolare.

«Sono stato sposato a lungo, poi il mio matrimonio è finito e sono rimasto single per un decennio. Senza alcuna volontà di sembrare sessista o misogino, ho conosciuto tante donne veramente fuori di testa. E forse Esma scaturisce un po' da questa esperienza. Capita a molti uomini che restano da soli, di andare un po' per tentativi. In un paio di occasioni sono uscito con donne che non solo non erano quelle giuste, ma non erano neppure come dicevano di essere. Chi sostiene di non essere pazzo a volte non si rende conto di esserlo davvero».

Qualcuno, nelle comunità di cui parla, ha avuto da ridire?

«Non si può fare fiction priva di basi reali. In America i rom non sono conosciuti come in Europa e non rappresentano un problema. Sono sempre molto attento, in quanto ebreo, quando tratto questi temi. Certo, sono stati oppressi, ma hanno anche delle responsabilità».

Come avvocato le sarebbe piaciuto occuparsi di questo caso?

«Eccome, sarei andato volentieri alla Corte internazionale: avrei avuto l'occasione di sperimentare un sistema legale totalmente diverso dal nostro».

Si sentirebbe ispirato da un caso di impeachment presidenziale?

«Nel caso di Trump, comincio a pensare che abbia una linea difensiva inconsistente. Sarebbe una storia al confine tra l'invenzione e la realtà. Insomma, un miliardario che ha alle spalle quattro fallimenti, tre matrimoni, che ha la fama di molestatore e che imbroglia persino giocando a golf».

Però vuole desecretare i documenti sulla morte di Kennedy.

«Ne sono informato solo in maniera frammentaria, da quello che mi hanno raccontato dai telegiornali italiani in questi giorni. Di solito sono contrario a qualsiasi cosa faccia Trump e mi spiacerebbe ritrovarmi d'accordo con lui».