Paul Konig è, nel suo campo, quanto di meglio New York possa offrire; ha scelto di sezionare cadaveri e di scoprire colpevoli, spinto da una passione che lo ha reso freddo e insensibile; ed è finito col sentirsi una «sudicia macchia grigia», la «sola nota triste in una tela pervasa d'amore». È lui il boss indiscusso, di un ufficio che, nell'ambiente, ha assunto un'aura leggendaria.
Non ha un carattere facile, il capo. Sempre sull'orlo di un accesso di rabbia, perennemente in corsa contro il tempo, ha perso la moglie da poco, e la sua bellissima figlia, Lauren, ha deciso di scappare di casa per inseguire un incerto futuro d'artista. È proprio mentre cerca di risolvere un caso difficile - sul suo tavolo di anatomopatologo sono arrivati pezzi umani irriconoscibili, rinvenuti sul letto del fiume Hudson, e ricostruirne le identità appare impossibile - Konig scopre che sua figlia è stata rapita: un evento drammatico, che ha l'effetto di far esplodere un uomo da sempre abituato a trattenere ogni emozione.
La New York degli anni Settanta che emerge dal libro è una città invasa del crimine e dal terrorismo, molto più simile a Sin City o ai sobborghi di Taxi Driver che alle commedie di Neil Simon: «I teppisti e gli psicopatici la fanno da padroni». Konig cerca, in qualche modo, di incidere sulla realtà, di recuperare giovani perdute (senza mai scadere nel moralismo) ma le sue azioni si infrangono contro una parete invalicabile, contro un mondo marcio e immodificabile. Lavora con ostinazione, malgrado i dolori e l'insonnia, senza fermarsi mai. Perché è questo il senso della sua vita: il poco di luce che riesce a portare in una notte senza fondo. «Perché lo faccio? Perché deve essere fatto e perché non c'è nessun altro disposto ad occuparsene».
"Città di morti" ha un andamento da tragedia classica; Lieberman (e il suo personaggio con lui) indaga sul senso della vita e della morte, dell'amore e dell'odio. Il confine è spesso molto labile. C'è il cadavere di un giovane, davanti al protagonista, con un punteruolo per il ghiaccio conficcato nel torace, che appare «bello, con un aspetto curiosamente vitale perfino nella morte. Un giovane nero immerso nei sogni. Sul punto di svegliarsi e andare via». Come in un dramma shakespariano, «finché possiamo dire: questo è il peggio, vuol dir che il peggio può ancora venire».
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