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di Luca Cifoni

I numeri sbagliati e altri equivoci sulla reversibilità

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Giovedì 18 Febbraio 2016, 22:59 - Ultimo aggiornamento: 20 Febbraio, 15:25
Il dibattito - se vogliamo chiamarlo così - sul tema delle pensioni di reversibilità è un esempio di come in questo Paese questioni importanti vengano affrontate in modo distorto e alla fine inconcludente. Tutto nasce da un provvedimento, molto pubblicizzato dal governo, che istituisce un nuovo strumento di contrasto alla povertà in particolare delle famiglie con bambini, essenzialmente un sussidio. Nello stesso testo, un po' alla chetichella, è stata però inserita anche un'altra delega, per la razionalizzazione delle prestazioni assistenziali attualmente assegnate in base al reddito, incluse quelle che  vengono erogate sotto forma di pensione. Rientrano in quest'ultima categoria le pensioni di reversibilità, o meglio ai superstiti: quelle percepite dal coniuge o dai figli di un pensionato o di un lavoratore defunto.

L'idea era "razionalizzare" questi trattamenti (ovvero anche ridurli) e destinare gli eventuali risparmi ad incrementare la dotazione finanziaria del nuovo sussidio. In astratto questo scambio potrebbe avere qualche senso, visto che nel confronto europeo (non sempre facile in verità) l'Italia è il Paese con la maggiore spesa per prestazioni ai superstiti mentre è ampiamente sotto la media sia alla voce "famiglia" che a quella "esclusione sociale". D'altra parte è sicuramente sensato e ragionevole tener conto del fatto che il meccanismo delle reversibilità si è consolidato negli anni e rappresenta una fonte di reddito non sostituibile per molte persone. Il principio base della razionalizzazione era sostituire lo strumento di verifica dello stato di bisogno, passando dal semplice reddito all'Isee (indicatore di situazione economica equivalente) che tiene conto anche del patrimonio. Anche questa idea non parrebbe campata per aria, a meno di voler sostenere che una vedova senza reddito ma con tre immobili di proprietà è più bisognosa di un'altra, lavoratrice con un modesto stipendio. Insomma c'erano tutti gli elementi per fare un'analisi seria e pacata. Inutile dire che ciò non è avvenuto e probabilmente non avverrà.

Il governo non ha spiegato bene cosa intendesse fare, ma per prudenza nella versione della legge inviata in Parlamento ha aggiunto una clausola, assente in precedenza, che limita la razionalizzazione ai trattamenti futuri. Scelta forse comprensibile, non troppo coerente però sul piano dell'equità, visto che le pensioni dei prossimi anni avranno una crescente componente contributiva legata all'aspettativa di vita, e quindi subiranno già una riduzione rispetto a quelle retributive. In ogni caso la prudenza non è bastata a mettere il provvedimento al riparo dalle critiche aspre di sindacati e partiti, che si sono concentrate sulla possibile decurtazione delle risorse per le vedove, senza apprezzare particolarmente l'eventuale corrispondente incremento di quelle destinate ai poveri. L'argomentazione più sobria è stata "Vergogna!".

In tutto ciò anche sui numeri si è fatta confusione: in un'appendice al provvedimento il governo ha quantificato in poco più di tre milioni i beneficiari della reversibilità, per una spesa complessiva di 24 miliardi l'anno. In realta la spesa è più alta, oltre 41 miliardi per quasi cinque milioni di persone. Come si spiega questa differenza? Le cifre indicate dall'esecutivo si riferiscono ad un sottoinsieme della platea: più precisamente si tratta delle pensioni percepite dai superstiti di un pensionato (esclusi quindi quelli di un lavoratore) e relativamente alla sola gestione privata dell'Inps. Nemmeno questo aiuta ad entrare nel merito.
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