Ma se la prospettiva di vivere di più è certamente benvenuta, l'evoluzione demografica non è stata uguale per tutti. Ad esempio è noto che alla nascita le donne possono contare in media su circa 5 anni in più degli uomini (anche se il divario si sta riducendo): per cui se ipoteticamente coefficienti e requisiti per la pensione fossero determinati in base al sesso invece che sulla media generale dovrebbero lasciare il lavoro più tardi e con assegni relativamente più bassi: cosa che giustamente non avviene.
Un interessante studio del Dipartimento del Tesoro prova ad andare un po' più a fondo esplorando le cause demografiche, sociali e occupazionali che possono far variare il rischio di mortalità. Le conclusioni, sostenute da dati e ben argomentate, risultano comunque non sorprendenti: viene spiegato che "una carriera stabile, caratterizzata da lavori non logoranti e da altre forme di protezione e sicurezza sul lavoro, aumenta la probabilità di vivere più a lungo". Il che, nell'ipotesi del tutto teorica di applicazione selettiva del criterio dell'aspettativa di vita, riporterebbe un po' di equità: coloro che al contrario hanno avuto un'attività lavorativa irregolare e precaria maturano di solito pensioni molto meno consistenti e dunque potrebbero beneficiare almeno di regole più generose rispetto ai fortunati con posto fisso e garantito.
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