Otto ore o poco più. Si è chiusa poco prima delle 23 la fuga di Federico Pecorale, bloccato nell’area di servizio Metauro, nella porzione di A14 che attraversa le Marche. Otto ore in cui le forze dell’ordine lo hanno identificato, cercato, inseguito, catturato in una lunga sequenza da film. In cui ogni personaggio ha avuto una parte importante. Il nastro che si riavvolge ha ancora qualche passaggio in ombra: tasselli solo apparentemente mancanti solo perché coperti dalla riservatezza investigativa. È dunque questo ventinovenne, dall’andatura un po’ goffa, ad aver sparato cinque colpi di pistola contro Yelfry Guzman, il cuoco ventitreenne del ristobar CasaRustì di piazza Salotto, a Pescara. Cinque colpi perché gli arrosticini non arrivavano nei tempi giusti, e per Pecorale non erano neanche buoni. A ventiquattr’ore esatte dalla sparatoria il dirigente della squadra mobile, Gianluca Di Frischia, con un giorno intero di indagine sulle spalle, impacchetta la documentazione da inviare alla procura della Repubblica di Pesaro che dovrà chiedere la convalida del fermo: tentato omicidio e porto abusivo di arma, le due contestazioni per le quali, al momento, è sottoposto al provvedimento cautelare.
QUATTRO SQUADRE MOBILI. Quattro squadre mobili impegnate (oltre a Pescara, Pesaro, Ancona e Fermo), due compartimenti autostradali (Abruzzo e Marche) e un autista di taxi capace di gestire il rapporto con un uomo armato. Con la pistola nascosta chissà dove, forse anche nel borsello che aveva con sé accanto al sedile. Non si era accorto, Federico Pecorale, che l’uomo al volante della macchina che lo stava riportando in Svizzera era in continuo contatto con un agente della squadra mobile di Pescara. Quattro o cinque telefonate, a cadenze regolari, attraverso le quali arrivavano istruzioni puntuali. Il tassista, un uomo della provincia di Chieti, ascoltava le chiamate con le cuffiette, rispondendo con frasi vaghe e di circostanza, in modo che quel passeggero potenzialmente pericoloso si sentisse a suo agio e in qualche modo sicuro.
Non sei ferma all'alt e cerca di investire la polizia: inseguimento e arresto
LE PRIME INDICAZIONI. «La nostra prima preoccupazione - sottolinea il questore Luigi Liguori, parlando delle tecniche utilizzate per l’inseguimento - era evitare che l’autista potesse essere preso come ostaggio, non potevamo assolutamente pensare di mettere in pericolo un’altra vita. Anche per questo abbiamo evitato di utilizzare il reparto volo. C’era già un elicottero pronto a partire». Il tassista conosceva già Federico Pecorale, lo aveva accompagnato altre volte, conosceva anche i familiari. Sono stati proprio loro a dare le prime indicazioni utili su come rintracciarlo, a raccontare che era partito per tornare a casa. Al tassista Pecorale aveva promesso un’importante somma di denaro per quel viaggio tanto lungo e lui per quella ragione aveva accettato. Anche su quella disponibilità di soldi oltre che sul possesso dell’arma, ora gli investigatori vogliono fare luce. Prima di partire per l’estero il ventinovenne si era fermato a Gissi in casa dei nonni materni: non una tappa, probabilmente per un attimo aveva pensato di fermarsi lì. Poi ha chiamato il taxi dell’amico e si è fatto portare via. Con il taxi era partito da Pescara: non lo aveva fatto chiamare dall’albergo, si era mosso per conto suo. In autonomia e riservatezza.
La porta dell’hotel Ambra si è chiusa alle sue spalle non più di dieci minuti prima che il capo della Mobile, Gianluca Di Frischia, e due agenti arrivassero alla reception. Hanno immediatamente perquisito la camera dove l’uomo si è sicuramente cambiato d’abito, e hanno trovato degli elementi utili a collocarlo, sul luogo della sparatoria. Li hanno posti sotto sequestro, poi hanno ripreso le ricerche. «La nostra preoccupazione - sottolinea proprio Di Frischia - era quella che ci fosse in giro un uomo armato, che di fatto aveva già sparato a una persona senza motivo. Avrebbe potuto farlo di nuovo. Si è trattato di un evento imprevisto e imprevedibile. Ora il nostro pensiero è tutto per il ragazzo in ospedale. Speriamo che ce la faccia».