Sociopsicovirus/ Il barista: «È giustissimo non fare servizio al banco e vi spiego perché»

Baristi con mascherina
di Tiziana Pasetti
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Venerdì 20 Novembre 2020, 15:29

L’AQUIL M. fa il barista e dice: «Giusto chiudere, anche l’asporto non va bene. I bar sono stati luoghi di contagio fortissimo, qui in città». M. fa il barista ma il locale non è il suo: «Cambia poco, io devo lavorare e se il mio datore non lavora io come vivo? Però capisco una cosa, capisco che un conto è cercare un modo per non andare in rovina e un conto è doversi salvare la pelle. Io posso anche non avere paura del Covid ma di sicuro adesso temo per tutte le altre malattie, quelle che sono sempre esistite e che negli ultimi decenni la medicina ha imparato a fronteggiare. Se mancano i posti in ospedale, se i medici di base non rispondono al telefono perché oberati, se le ambulanze partono in ritardo, se le visite non si fanno o si rimandano, come si fa? Non ci rendiamo conto che stiamo facendo un salto indietro di duecento anni?».

M. fa il barista in un locale non suo e dice: «Prima che l’Abruzzo diventasse zona arancione le cose funzionavano così. Fuori c’era esposto un cartello che diceva che potevano entrare un tot di persone. A terra c’erano dei segnali per indicare le distanze. Fuori c’era il liquido per disinfettare le mani e io e il mio collega non ci siamo mai tolti la mascherina. Perfetto, no? Che senso ha, hanno detto molti colleghi baristi in tutta Italia e non solo qui all’Aquila, chiudere una catena di montaggio perfetta come questa?».

M. fa il barista e qualcuno potrebbe dire che parla bene, lui, visto che il locale non è il suo: «Le cose hanno funzionato, poco, solo all’inizio. Le mascherine noi le abbiamo tenute sempre ma dopo le prime dieci persone che entrano ogni mattina non ce la fai a dirgli di uscire e disinfettarsi le mani, non ce la fai ogni volta a dire di aspettare oltre la linea di distanziamento in attesa del turno, non puoi metterti a fare il vigile. Anche perché poi qui la clientela è quella affezionata, se provi a far rispettare una regola ti scoppiano a ridere in faccia oppure proprio non ti ascoltano. Poi voglio dire una cosa che deve essere chiara: il virus non è statico. Se al banco io servo una tazzina di caffè o un cappuccino o qualunque altra cosa e nello stesso tempo ne tolgo un’altra e intanto ne servo un’altra io non è che per ogni passaggio mi disinfetto le mani! Sarebbe impossibile.

Ma la persona che ha preso in mano la tazzina, che ci ha appoggiato la bocca, come fai a sapere se è positiva o no? Possibile che non si capisce questo piccolo ma logico passaggio? Io è da aprile che non bevo una cosa al bar neanche se me la offrono, ho cercato e cerco anche adesso che c’è l’asporto di stare attento ma posso assicurare che non è possibile proprio, che è una filosofia, quella della consumazione al bancone soprattutto, troppo veloce nei ritmi».

M. fa il barista, ha uno stipendio buono, e dice: «Io il mio lavoro lo amo, però sono deluso. Allora, è vero che ci sono i costi e che adesso non si guadagna come nei tempi normali, è vero. Però è vera anche una cosa e mi dispiace dirla ma devo: quanti caffè e colazioni abbiamo servito in questi anni senza battere scontrini? Infiniti. Lo Stato lo abbiamo fregato tantissimo e adesso vogliamo che si metta subito sull’attenti e che ci riverisca e che faccia sparire il virus: siamo ridicoli. C’è la crisi, ci saranno brutti momenti, ma non siamo noi quelli che moriranno di fame. Lo sappiamo che alla fine gli aiuti ci saranno, magari tardi, ma che ci manca da mangiare? Magari non ci compriamo subito l’iPhone nuovo o pagheremo l’affitto o la bolletta in ritardo ma chi ci sfratterà o staccherà la corrente? Nessuno».

M. fa anche l’osservatore: «Da quando c’è questo virus pare che la gente abbia riscoperto cose che prime non si vedevano più: la pacca sulla spalla, pure gli abbracci e i baci. Lo vedevo anche durante gli aperitivi, ognuno pensa che il divertimento sia un diritto. E al bar non ci vengono i ragazzetti, nei bar ci vengono quelli dai venticinque anni in su. Non sappiamo comportarci, l’unica è chiudere».

Tiziana Pasetti
© RIPRODUZIONE RISERVATA 

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