Ferrazzo, membro di un clan calabrese, diventa collaboratore di giustizia dopo essere finito nella rete dell’antimafia nell’ambito dell’operazione Isola Felice. Il 30 dicembre del 2011 la sua compagna lo incontra nel carcere di Lanciano e subito dopo viene intercettata mentre riferisce telefonicamente alla sorella di Ferrazzo dei timori che quest’ultimo nutre in merito all’incolumità del cognato e del resto della famiglia. La donna fa inoltre cenno a presunti problemi che, sulla base di quanto affermato da un avvocato mai identificato, il padre di Straccia avrebbe avuto con la ’ndrangheta. In seguito alle reiterate opposizioni dei familiari alle richieste di archiviazione avanzate dalla Procura, che fin dall’inizio ha ritenuto priva di riscontri l’ipotesi dell’omicidio, è lo stesso procuratore capo Massimiliano Serpi a compiere ulteriori approfondimenti, recandosi a Bologna, il primo luglio del 2019, per ascoltare Ferrazzo, che cambia versione: non parla più del presunto scambio di persona con il cognato, ma «amplia il ventaglio dei soggetti che sarebbero stati il vero obiettivo - è scritto negli atti della Procura - inserendovi la propria persona». Ferrazzo dice a Serpi: «Sì perché Roberto mi chiamavano a me. Mi conoscevano come Roberto, che ero di Pescara». Lo stesso nome e la stessa città in cui viveva Straccia.
Inoltre Ferrazzo punta il dito contro un esponente della malavita pugliese, «che mi aveva minacciato, una persona di vicino Foggia che mi aveva messo alle strette». Elementi che hanno indotto Mecchi a chiedere la trasmissione del fascicolo alla Dda dell’Aquila, ma che al contempo rafforzano la convinzione della Procura che non si sia trattato di omicidio.
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