«Non vi è dubbio che la parte offesa la sera dei fatti, al di là di quello che era stato percepito dai presenti, che in effetti non avevano avuto modo di vedere l'arma, era stato colpito con una lama affilata sul volto. E poiché il soggetto che lo aveva colpito sul viso era l'odierno imputato non vi è dubbio che quest'ultimo avesse in mano una lama, strumento atto ad offendere che aveva portato fuori la propria abitazione senza un giustificato motivo».
Così la Corte d'Appello presso i Minori dell'Aquila si è espressa sulla condanna per un nipote di un collaboratore di giustizia palermitano residente nel 2017 a Pizzoli, accusato di aver utilizzato in via Garibaldi, in una notte affollata di giovani, un taglierino per provocare una lesione irreparabile all'occhio sinistro di un giovane aquilano al culmine di un litigio nato per questioni di gelosia.
Per il collegio della Corte d'Appello (che ha confermato la condanna a 10 mesi di reclusione con la sospensione della pena, condizionata allo svolgimento di lavoro di pubblica utilità per la durata 4 mesi) «nessun accertamento è stato necessario al fine di verificare la compatibilità tra l'anello indossato dall'imputato (la difesa del giovane imputato ha infatti negato l'uso del coltello sostenendo che la lesione è stata provocata dal monile, ndr) e il taglio, sia perché sul punto le dichiarazioni del medico non lasciano margini a dubbi, sia perché il monile, tutt'ora in sequestro, appare, ad un semplice esame obiettivo, del tutto inidoneo per la mancanza di profili taglienti, a provocare una ferita da taglio con margini netti quale quella riportata dalla persona offesa».
In relazione alla legittima difesa, il collegio ha evidenziato «come i due ragazzi si sono picchiati reciprocamente fino a quando l'imputato ha colpito l'antagonista con un fendente sul viso. È davvero palese - proseguono i giudici - la sproporzione tra l'offesa e la reazione difensiva.
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