Due giovani morti e la pandemia, l'ex parroco Roberto Camerucci: «Lascio per sempre, ma non rinnego la fede»

Due giovani morti e la pandemia, l'ex parroco Roberto Camerucci: «Lascio per sempre, ma non rinnego la fede»
di Teodora Poeta
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Giovedì 7 Ottobre 2021, 10:10 - Ultimo aggiornamento: 10:16

Non ha mai indossato l’abito talare per non creare il distacco con i suoi fedeli perché un sacerdote è un uomo scelto da Dio in mezzo agli uomini. Durante i sette anni di sacerdozio ha sempre continuato a coltivare i suoi talenti, come il ballo, e questo gli ha permesso di conoscere anche alcuni giovani che, come lui, uscivano nonostante il peso di una malattia e che oggi non ci sono più. La decisione, irrevocabile, di lasciare il sacerdozio di don Roberto Camerucci, 47 anni, originario di Roma, parroco di Nereto, in provincia di Teramo, non è stata, come qualcuno gli ha anche detto, una tentazione, ma «la provvidenza», come invece lui ha risposto.


E’ proprio Roberto, come adesso preferisce farsi chiamare, che ha raccontato il lungo percorso che ha preceduto questa decisione così importante. «L’ho maturata col tempo ed è stata supportata da un padre spirituale che adesso non c’è più», dice. Innanzitutto, però, c’è un aspetto a cui tiene particolarmente, che riguarda la sua parrocchia: «Oggi posso affermare che la comunità ha fatto quadrato e mi sta esprimendo un affetto che non avrei mai immaginato. Quello che ho avuto dalla comunità non l’ho avuto neanche dalla Chiesa e dai confratelli». In passato, però, c’erano stati degli attacchi dai quali Roberto si era addirittura dovuto difendere pubblicamente su Facebook. Da questi continua a prendere le distanze e a difendere i suoi parrocchiani: «Non sono stati loro, anzi da loro sono sempre stato difeso. Si è trattato di singole persone, ma non importa». La vocazione è arrivata dopo 13 anni di lavoro come operaio. Ma cos’è accaduto? «Il termine vocazione mi turba. Non è una semplice chiamata. Dio ci vuole felici. Anche quando vivevo a Roma ho sempre fatto la vita sacerdotale e mi ha sempre affascinato la figura del sacerdote che rimane sé stesso e si dona agli altri». Un destino quasi segnato. Tant’è che a luglio del 2014 nella chiesa di Nereto è stato l’ex vescovo di Teramo, monsignor Michele Seccia, a celebrare la cerimonia di insediamento.

Ma quel destino sembra aver mandato un segnale perché durante il suo discorso, che aveva scritto per timore di dimenticare qualcosa, Roberto ha perso una pagina. Un pezzo che forse ha ritrovato oggi che da quello stesso pulpito ha deciso di scendere. «Il sacerdozio ha dei lati meravigliosi e altri “diabolici”. Il fare ti può portare fuori dall’obiettivo essenziale».


A fargli scattare la molla ci sono stati due eventi drammatici che nella sua vita di sacerdote sempre vicino alla gente hanno pesato. «Dopo il percorso che avevo già iniziato c’è stata la morte di due giovani parrocchiani. Sono loro che mi hanno insegnato a stupirmi dell’alba e del tramonto perché la morte la vediamo sempre lontana da noi, ma quando troveremo un senso alla vita, troveremo un senso anche alla morte», dice. La pandemia poi, gli ha dato il tempo per riflettere. Oggi, comunque, Roberto in maniera convinta e serena dice: «Fede e Chiesa, non rinnego nulla». Anche se un timore c’è ed è quello di restare solo come chi, prima di lui, si è svestito «e si è ritrovato letteralmente solo». «Tutti plaudono Papa Francesco per la sua apertura, ma di fatto non glielo permettono». Adesso Roberto chiede di essere lasciato tranquillo «a godersi l’essenza della vita e continuare a fare verità nella sua vita». «Voglio però lanciare un invito a tutti a prendere in mano la propria vita – conclude - La libertà di essere non possiamo barattarla con nulla».

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