«Avrebbe bisogno di un luogo per proseguire l’espiazione della pena che gli consenta un’attività socialmente utile, l’alternativa è una comunità che lo ospiti in Abruzzo» dice l’avvocato Vincenzo Di Nanna che lo assiste e che intorno al caso Pellegrini ha aperto una sorta di mobilitazione, che vede schierato il Partito Radicale, poiché quello del pianista teatino è un caso a dir poco singolare. Da una parte infatti la cannabis, che Pellegrini coltivava per potersi curare, è l’unica terapia certificata dai medici per affrontare la dolorosissima fibromialgia che lo affligge. Ma dall’altra, quasi come una beffa, a ottobre del 2016 è arrivato il decreto commissariale (la sanità in Abruzzo all’epoca era ancora sub commissario) che nel disciplinare le modalità di erogazione e rimborsabilità dei farmaci a base di sostanze cannabinoidi per finalità terapeutiche, esclude dalle prescrizioni la riduzione del dolore nella fibromialgia. Ovvero proprio della patologia da cui è affetto Pellegrini.
E da quel momento per l’uomo sono state tre le alternative alla coltivazione in proprio della cannabis: pagarsi da solo le medicine benché indigente ma la spesa è elevatissima, di fatto insostenibile, tenersi il dolore o lasciare l’Abruzzo. Il decreto commissariale firmato dal Luciano D’Alfonso, secondo la difesa è manifestamente illegittimo e caratterizzato da carenza di potere, una figura più grave di nullità. «Il caso Pellegrini - è la conclusione dell’avv. Di Nanna -. pare una concomitanza di malasanità e malagiustizia, oltre ad evidenziare, qualora ce ne fosse bisogno, come il proibizionismo sia dannoso anche alla salute».
Alfredo D’Alessandro
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