L’AQUILA I Moti del ‘71 non servirono a nulla. La rivolta popolare contro la spoliazione degli assessorati non sortì alcun effetto. Quello che fu è. Mentre noi ragazzi lanciavamo i sampietrini agli agenti della Celere- ricambiati da lacrimogeni sparati ad altezza d’uomo- in una lotta ideologica contro il potere, i più grandi, gli adulti, lo facevano perché erano consapevoli a quale triste futuro economico e sociale sarebbe andata incontro la città.
Quanto accadde, anche contro strutture private, andava interpretato come un gesto scomposto di dolore da parte di chi si sentiva tradito dalle persone verso le quali aveva riposto maggiore fiducia. Invece, la politica e l’Intelligencija collegata li lessero come barbari gesti di orde di “piazzaroli” o sbarbatelli. Nei salotti della politica e dei radical chic presto si tornò a respirare un’aria da “passata è la tempesta: odo augelli far festa”.
Questo è quanto accaduto. Andava ricordato per capire lo stato attuale. Un cinquantennale deve rappresentare il momento per una riflessione che tenga conto delle linee da seguire per il futuro. Se oggi si rivolgono accorati appelli, vuol dire che qualcosa non è andata per il verso giusto. Quindi, va evidenziato affinché non solo non si ripeta, ma si trovino le energie per agire diversamente. La spoliazione significava posti di lavoro, tanti posti in meno, in un’economia basata essenzialmente sul reddito fisso impiegatizio.
Ebbene, oltre allo sviluppo e alla conseguente morte della Siemens/Italtel, in questo lungo periodo non vi sono state iniziative capaci di attrarre investimenti che consentissero importanti impieghi di personale. Si è andati avanti a tentoni, con iniziative estemporanee, sporadiche, più o meno promosse dalle varie amministrazioni. Mentre accadeva questo, intorno il mondo ha continuato a girare seguendo progetti a lungo termine. Così è accaduto che aree ritenute “sculturate” ci abbiano raggiunto e sorpassato, togliendo o tentando di continuare a togliere all’Aquila tutto il possibile.
È mancata una visione generale della città e del suo sviluppo in rapporto al territorio, inteso anche come provincia e regione. È mancata la capacità di aprirsi all’esterno e di confrontarsi. È come se quella divisione sbilanciata verso Pescara degli Uffici regionali, senza che nulla riequilibrasse il sistema, neppure dopo la rivolta, avesse condizionato la popolazione a rinchiudersi in sé stessa, per paura dell’altro.
Storicamente, ineluttabilmente i tempi cambiano. Se questo è stato il passato, occorrono: lo scatto di orgoglio di una classe politica da rinnovare (non nell’età, ma nelle idee e nelle capacità); una consapevolezza dei propri mezzi e delle proprie prerogative; una presa di coscienza collettiva; una determinazione nell’imporre il proprio ruolo di capoluogo, perché essere piccoli (pochi abitanti) non significa essere deboli. Occorre avere il coraggio di sapersi porsi e contrapporsi agli altri, un aspetto che implica onestà e moralità. Agire non per interesse di bottega (partito o personale), ma per quello della collettività. Altrimenti questa città continuerà a vivere nell’inedia e d’inedia spirerà.
Antonio Andreucci *
* Giornalista e scrittore