Coronavirus, il medico in prima linea: «Che strazio quei pazienti che ti guardano negli occhi e dicono “non respiro”»

Coronavirus, il medico in prima linea: «Che strazio quei pazienti che ti guardano negli occhi e dicono “non respiro”»
di Saverio Occhiuto
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Sabato 30 Maggio 2020, 12:00 - Ultimo aggiornamento: 12:02
Il volto un po’ affaticato, l’espressione severa ma accompagnata dal tono pacato, nonostante le circostanze. Già, perché nel video realizzato per la stampa straniera, a proposito della sua esperienza vissuta all’ospedale di Popoli nella lotta al Covid-19, Ali Yuanes, anestesista rianimatore di origine libanese, trapiantato in Abruzzo dagli anni ‘80, lancia un monito anche ai colleghi. Quelli che in tv provano a dare “lezioni” sul soccorso ospedaliero prestato a chi ha contratto il virus, rimarcando alcuni presunti errori consumati nei reparti di terapia intensiva. «Non si può fare un servizio informativo serio – dice lo specialista – senza avere mai fatto un’esperienza in prima linea con i malati che ti guardano in faccia e ti dicono “dottore non respiro”. O gente che abbiamo addormentato, intubato e non ha più rivisto i parenti. O, nel migliore dei casi, li ha visti dopo due mesi. Scusatemi – si sfoga ancora il dottor Yuanes -, riflettete prima di dire certe cose».

Già primo dirigente all’ospedale Villa Letizia dell’Aquila, esperto di terapia del dolore. Sino a due mesi fa il medico libanese era impegnato nel suo laboratorio privato di Pescara a seguire i propri pazienti e il progetto della Regione sulle fibromialgie a cui era stato chiamato a collaborare. A metà marzo arriva la telefonata dalla Protezione civile, quando la pandemia aveva iniziato a creare seri problemi anche in Abruzzo. Yanes non ci pensa due volte: indossa il camice e torna a mettersi a disposizione del servizio pubblico.

La Asl di Pescara lo destina al presidio ospedaliero di Popoli, uno dei più impegnativi nel contrasto al virus. Lo stesso ospedale dove il 25 aprile perderà la vita un infermiere di 60anni, Francesco Di Berardino, che aveva contratto il Coronavirus da una paziente ricoverata dopo un intervento. Oggi che la pandemia ha allentato la morsa, Yuanes sente il dovere di mettere a disposizione la sua esperienza per fare alcune precisazioni: «E’ necessaria una parola di chiarezza vista la confusione che circola sul web. Chi parla non ha mai vissuto davanti a sé il momento critico di vedere persone che stanno morendo, tre o quattro malati di fila, e dover decidere, intubati o meno, come curarli. Per farlo ci vuole esperienza. Questa cosa è capitata a tanti di noi in prima linea, non a persone che parlano spesso a vanvera».

Lo specialista si scusa subito per l’espressione forte usata: «Perdonatemi, ma ci sono dei punti fermi da chiarire. Nessuno di noi – continua - scienziato o meno, conosce bene il virus. Nessuno ha una terapia. Nessuno conosceva questa malattia quando si è presentata. Adesso abbiamo imparato a conoscerla meglio. Prima arrivavano da noi i pazienti in terza fase, cioè in insufficienza respiratoria. Con micro emboli o meno, sempre di insufficienza respiratoria si trattava. E non potevi far altro che intubarli. Non si può dire non era necessario attaccarli al respiratore. Adesso che sappiamo che la malattia ha tre fasi, sappiamo che il paziente può essere curato a casa nella prima fase, e se ti sfugge, prenderlo in cura nella seconda. Meglio in ospedale. E’ anche vero – precisa lo specialista – che la reazione immunologica del nostro corpo, con cariche di citochine dovuta all’infezione, ha risposto alla terapia con l’eparina, e ora si dà la cardioaspirina per la prevenzione. Giorno dopo giorno abbiamo scoperto la malattia e cosa fare per contrastarla. Ma sentire dire che non serve l’intubazione per i malati è una baggianata. Purtroppo – osserva ancora Younase – alcuni cosiddetti scienziati hanno perso credibilità su questo argomento. Molti di loro vanno in tv solo per parlare male dei colleghi e dire spesso tutto e il contrario di tutto».
Lo sfogo si chiude qui. Il medico anestesista torna al suo lavoro dopo essere stato interpellato anche dai media libanesi per raccontare la sua esperienza italiana nella lotta al Covid. Fra qualche giorno dovrebbe concludere la sua missione all’ospedale di Popoli per tornare a occuparsi di terapia del dolore e dei suoi pazienti. Si porterà negli occhi il dolore di quelli che non ce l’hanno fatta e il sorriso di quelli che dopo due mesi hanno rivisto la luce. Un po’ meno il rumore assordante di certi camici da salotto.
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