Come raccontano le operatrici infatti, il triage per le gravide non ancora testate è collocato in una zona di intenso transito di pazienti, sanitari e personale di servizio che conduce al blocco parto, alle sale operatorie, al nido neonatale e ad altri reparti, col rischio di trasmettere o contrarre il virus. Per di più la stanza dove si eseguono i tamponi (che salvo urgenze non rientrano nell’attività specifica di un’ostetrica) non rispetta i requisiti ministeriali poiché non contempla un’anticamera-filtro per consentire vestizione/svestizione, disinfezione e deposito dei rifiuti potenzialmente infetti, il cui contenitore è invece mascherato dietro un semplice paravento. «Abbiamo più volte richiesto che le partorienti, perlomeno il maggior numero, vengano testate prima del ricovero in un luogo esterno al reparto, magari in fasce orarie stabilite per non affollare gli ambienti, ma le richieste non sono mai state prese in considerazione». Insomma, spetta alla sensibilità delle ostetriche intuire potenziali positive e adottare i dispositivi di protezione individuale più idonei. «È accaduto però che si sia appresa la positività di una paziente solo dopo il ricovero, anche a distanza di tempo».
Le donne accedono al blocco parto munite di mascherina chirurgica che, come noto, protegge solo in uscita e in fase di travaglio non è facile da tollerare. Le ostetriche si prodigano contando sulla buona sorte senza avere la certezza di non aver contratto loro stesse il covid, perché nella quasi totalità non sono state sottoposte a tampone, come buona parte dei dipendenti. Qualcuna con molte insistenze è riuscita a imporsi a seguito di stretto contatto con mamme risultate positive, ma l’iniziale responso negativo non è stato mai seguito da un secondo test come stabilito. «Per timore di esporre al contagio i nostri familiari molte di noi hanno scelto di autoisolarsi o trasferirsi temporaneamente altrove, alcune di rivolgersi ad un laboratorio privato per l’esame diagnostico a proprie spese».
© RIPRODUZIONE RISERVATA