Coronavirus, il racconto dell'infermiera italiana sul sito dell'Onu: «Turni di 10 ore senza bere né mangiare, a volte mi manca il respiro»

Laura Lupi, Coronavirus, l'Onu pubblica il racconto di un'infermiera italiana: a volte mi manca il respiro
di Matteo Bianchini
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Giovedì 9 Aprile 2020, 09:47 - Ultimo aggiornamento: 12:37

«Voglio che i miei pazienti possano dire io sono sopravvissuto al Coronavirus» è la parte di una testimonianza di una giovanissima infermiera, Laura Lupi, di Colonnella, che ha affidato il racconto di questi giorni di emergenza, vissuti in ospedale. La testimonianza dell'infermiera in servizio nel reparto Covid-19 dell'ospedale di Teramo campeggia sull'home page del sito delle Nazioni Unite.

L'intervista raccolta dall'Ufficio regionale dell'Organizzazione mondiale della sanità per l'Europa vuole essere un omaggio all'impegno del personale sanitario che opera in Italia per
contrastare la pandemia. La 24enne, laureata in scienze infermieristiche da circa un anno, è in servizio in uno degli ospedali Covid della Asl di Teramo e, con il cuore in mano, parla dell’esperienza che sta vivendo.

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«Il modo in cui indossiamo i nostri indumenti protettivi all’inizio di ogni turno decreta il nostro destino - dice Laura - Quei primi venti minuti necessari per indossare la tuta protettiva sono fondamentali per evitare l’infezione. Un anno fa e ho lavorato in reparti di medicina generale e geriatria, ma niente avrebbe potuto prepararmi per le sfide professionali ed emotive che sto affrontando adesso: i miei turni durano dalle 7 alle 10 ore, durante i quali non posso mangiare né bere, perché è impossibile togliersi le tute protettive. A volte mi manca il respiro e non sento l’aria fresca nemmeno se apro una finestra. Forse la parte più difficile è mantenere la distanza fisica dai nostri pazienti, che risulta ancora più complicato dal fatto che siamo interamente coperti. La maggior parte della connessione umana, che è una delle cose che mi ha fatto innamorare di questo lavoro, si perde inevitabilmente».

Giorni duri vissuti tra la paura costante dell’infezione ma anche nella consapevolezza che il proprio lavoro può fare la differenza per la vita dei pazienti. «Il primo giorno - continua l’infermiera - è stato particolarmente difficile: al mio ritorno a casa, ero fisicamente ed emotivamente distrutta, tutto quello che desideravo era l’abbraccio di mia madre, ma ovviamente non era possibile. All’inizio ho dovuto combattere l’istinto di arrendermi, ma non potevo abbandonare i miei colleghi». E così, inevitabilmente, anche la sua vita nelle poche ore di riposo è profondamente cambiata. «Vivo con i miei genitori e mio fratello, ma non passo del tempo con loro da quando ho iniziato a lavorare in questo reparto. Non posso correre il rischio di contagiarli, quindi non possiamo neanche condividere le cene. Ho sempre saputo che questo lavoro comporta dei rischi. Mi sento ricompensata dalle espressioni di solidarietà, è gratificante sapere che le persone riconoscano il nostro ruolo e l’importanza del lavoro che facciamo. Cosa mi aspetto dal futuro? Spero di vedere i pazienti guariti che lasciano l’ospedale. Io so che possiamo sconfiggere il virus, lo possiamo combattere insieme. Questa è la motivazione che mi spinge ad andare avanti».

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