«Il giorno più bello della mia vita», si commuove lui che della sua vita ha visto la fine, tredicenne appena, l’aspettava una camera a gas, e ancora oggi firma con la sigla e il numero marcato sul polso: Samy Modiano B7456. Non se l’aspettava, Samy sopravvissuto ad Auschwitz, che questa domenica avrebbero pianto così tanto, di una gioia inattesa, che a 85 anni si fatica a immaginare. È arrivato in Sinagoga accanto a Selma, sua moglie da così tanti anni, c’erano centinaia di persone oltre il cancello ed erano lì per loro, bambini e adulti vestiti a festa. Per Samy e Selma, le mani bagnate di lacrime e il passo più lento per l’emozione. Entrati nel Tempio hanno tremato, erano in duemila ad aspettarli.
Niente sapevano, i due coniugi, della festa organizzata per loro dai volontari della comunità ebraica di Roma. Passaparola e una pagina Facebook, Daniel Di Porto ha lavorato per settimane alla cerimonia per l’anniversario dei Modiano. E la domenica mattina è andato a prenderli a casa in macchina per accompagnarli in Sinagoga. Per caso Samy aveva la giacca e la cravatta delle occasioni, si era vestito così per un incontro importante e non certo per risposare la moglie.
Samy ha indossato il talled ed è salito in tevà, nella parte più alta del Tempio, e davanti al Rabbino Capo Riccardo Di Segni ha preso insieme a Selma la benedizione. E poi i canti e balli ebraici dei bambini, fuori dalla Sinagoga il rinfresco organizzato per loro. Una grande festa, che la comunità ha voluto dedicare a una delle sue voci più forti, con un pensiero a Parigi. «Lì hanno fatto chiudere le sinagoghe - commenta Riccardo Pacifici, presidente della comunità ebraica di Roma - noi l’abbiamo aperta e riempita per festeggiare un reduce dei campi di sterminio che ci ricorda che contro la violenza e contro chi vuole annientarci vinciamo sempre».
Samy continua a ricordare e raccontare, sul suo libro «Per questo ho vissuto» firma le dediche con la sigla.
«Mio padre Giacobbe era B7455». Tutti erano solo una lettera e quattro cifre: lui appena tredicenne, la sua famiglia e i 2.500 della comunità di ebri italiani a Rodi. «Un'intera comunità cancellata. Ci presero il 18 luglio 1944, arrivammo alla rampa della morte il 16 di agosto. Un viaggio di un mese stipati come bestie in battelli». Poi i treni per Birkenau. Era destinato alla camera a gas, il padre riuscì a portarlo nella fila dei superstiti.