«Sorella mia, io sono buono di core. Basta che c'è la salute». Che slang, Mohamed Arfaoui. Dopo oltre 30 anni nella capitale della lingua tunisina resta...
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Mohamed, sei arrivato a Roma a cercar fortuna, ora hai un autosalone di usato e una carrozzeria. Il tuo segreto?
«Sorella mia, se sei un lavoratore onesto la fortuna la trovi da tutte le parti».
Attestati e riconoscimenti da Comune e Regione, hai ancora 5 dipendenti italiani?
«Ora sono due, perché il lavoro non ce sta più. Ma andiamo avanti, un giorno bistecca, un giorno panino».
A Roma dall'età di 18 anni, con dentro una passione per le macchine da quando ne avevi sei.
«Ho lavorato sotto padrone giorno e notte. Negli anni 80 ho aperto una carrozzeria dove entrava solo una macchina, lavoravo sotto la pioggia, si è sparsa la voce che ero bravo. Mi sono allargato. Sorella mia, i sacrifici sono passati».
Ti trovi ancora bene a Roma?
«La gente italiana ha il cuore buono è più africana che europea, ti apre la porta di casa, ti dà il cuore, a me è andata bene, ormai sono integrato. Però qualcosa sta cambiando, è uscita una generazione diversa, chiusa, diffidente, la vita è più preoccupante, 30 anni fa si stava meglio, era l'America».
Che è cambiato?
«Prima venivano in carrozzeria contenti, pagavano. Adesso manco ci rientro con la spesa, la gente non ha soldi, ti raccontano i loro problemi, quindi invece di 700 euro gliene chiedo 400, te devi accontenta', i sordi ti arrivano con Dio, basta che c'è la salute, però no? E una risata».
Non hai mai avuto problemi?
«I datori di lavoro mi portavano a casa, mi offrivano pasta e fagioli. Sono cresciuto qui a Roma con gli italiani. Se mi dicono a negro, mi metto a ride' e non me ne frega niente, rispondo a nano e via. Non mi graffia niente, devi essere forte e coraggioso».
E fortunato. Tre figlie, moglie e amici italiani, disoccupati di ritorno spesso, che aiuti in cambio di una verniciatura.
«Ho 60 anni, il mio mondo, la mia vita è qui. Mi siedo a scherza' al bar con gli amici italiani, andiamo a cammina' sull'Appia Antica, a fare il torneo di calcetto al circolo. Sono cresciuto qui, se me levi da qui muoro, qua mi sento un antico romano. Il mio migliore amico? Angelo, un poliziotto, è bravo, famoso. E' un fratello, io chiamo lui arriva, lui chiama io arrivo. I suoi figli mi chiamano zio».
Chi viene ora non è fortunato come te.
«Sono venuto in cerca di un futuro e l'ho trovato. Ho incontrato i fratelli e le sorelle italiani, con loro ho vissuto e diviso il letto. La vita era più facile e la gente più umana, ora l'ospitalità è cambiata, le porte si sono blindate, i poracci che arrivano non lo sanno. Io continuo a fare il mio lavoro, il mestiere ce l'ho nel sangue, adesso sto a restaura' una 500 del 60. Una figlia fa la portantina all'Umberto I, una sta con me: è un treno, il futuro è delle donne, sono forti, intelligenti, i maschi più deboli».
Il tuo motto resta: lavorare, lavorare, lavorare?
«Sì anche se la situazione è peggiorata, la gente fa tanti sacrifici, la devi capire, io aggiusto poi dico dai paghi tra un mese, pure io l'estate chiudo sempre meno. Bisogna lavorà».
Come hai fatto a integrarti così bene?
«Devi imparare la cultura della gente con cui vivi. Dalla sanità alle leggi, diventare più bravo e preciso di loro, ti devi incuriosire. E appassionare... Io se sto a lavora', ci resto a dormì dentro una macchina».
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