Privatizzazioni, la carta del super-fondo: il piano B da 18 miliardi del governo

Privatizzazioni, la carta del super-fondo: il piano B da 18 miliardi del governo
La domanda ha iniziato a circolare con insistenza tra gli addetti ai lavori non appena inviato a Bruxelles il nuovo documento di bilancio. Come farà il governo, il prossimo...

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La domanda ha iniziato a circolare con insistenza tra gli addetti ai lavori non appena inviato a Bruxelles il nuovo documento di bilancio. Come farà il governo, il prossimo anno, a raggiungere l'obiettivo di 18 miliardi di privatizzazioni. In pratica l'unica sostanziale modifica apportata ai numeri comunicati alla Commissione per provare a scansare la procedura d'infrazione, una sorta di clausola di salvaguardia utilizzata come paracadute di sicurezza per il debito pubblico se l'economia non dovesse marciare come previsto e le spese dovessero finire fuori controllo.

Una cifra enorme, tenendo per esempi presente che lo scorso anno il governo Gentiloni aveva promesso 3,6 miliardi di cessioni e non è riuscito a portare a casa nemmeno un euro.

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E soprattutto considerando il postulato pronunciato dal ministro dello Sviluppo economico e leader del Movimento Cinque Stelle, Luigi Di Maio, per cui in quei 18 miliardi di euro nemmeno un centesimo sarà ricavato «vendendo i gioielli di Stato», ossia Eni, Enel, Poste, Ferrovie, e tutte le altre società rimaste in pancia al Tesoro dopo le vendite degli anni Novanta e Duemila. Eppure, nonostante tutto, un piano sarebbe allo studio da tempo facendo leva su alcune idee presentate allo stesso governo dalle banche, da Intesa Sanpaolo e Mediobanca in particolare. Un paio di settimane fa il numero uno di Intesa, Carlo Messina, avrebbe incontrato, separatamente, sia Di Maio che Salvini per illustrare la proposta. Il perno dell'operazione non sarebbero le quote societarie ancora in possesso del Tesoro. E, almeno questa volta, nessun ruolo avrebbe la Cassa Depositi e Prestiti, chiamata in ballo ormai per qualsiasi operazione. L'idea di fondo Messina l'aveva spiegata un paio di mesi fa proprio al Messaggero. «Il valore complessivo degli immobili pubblici», aveva sottolineato Messina, «è stimato in 385 miliardi, circa 215 miliardi sono di proprietà dei Comuni. Si potrebbe dare vita a una serie di fondi comunali aperti con l'obiettivo di acquistare e valorizzare una parte di quegli immobili». Le quote di questi fondi potrebbero essere comprate in prima battuta dalle stesse banche e dalle fondazioni bancarie.

IL MECCANISMO
Che poi potrebbero collocarle presso i cittadini residenti nel territorio dove quegli stessi immobili sono ubicati. Il loro acquisto, inoltre, potrebbe essere incentivato da esenzioni fiscali modello Pir, i piani individuali di risparmio. «In tal modo», aveva spiegato ancora Messina, i cittadini «investirebbero in uno strumento poco rischioso e con un discreto reddito, oltre a godere di servizi locali migliori grazie alla riqualificazione degli edifici garantita da una gestione professionale».


Il valore degli immobili oggetto dell'operazione, era stato stimato dal numero uno di Intesa in una prima fase, in circa 100 miliardi da collocare in 3 anni. In pratica 30 miliardi l'anno, meno dei 18 miliardi indicati dal governo nella risposta inviata a Bruxelles. L'idea di Mediobanca è un po' più datata, e il governo l'avrebbe, come si dice, trovata nei cassetti del Tesoro, ma simile nella sostanza. Alla base prevederebbe la creazione di un veicolo pubblico nel quale collocare attivi dello Stato, per poi emettere obbligazioni che potrebbero essere sottoscritte dalle stesse banche pagando in Btp. Il governo, come detto però, non vuole che oggetto di queste operazioni siano le società partecipate ma solo gli immobili. Ragion per cui sarebbe stato scartato anche il piano «Capricorn», quello esaminato dal governo Renzi e che invece puntava a trasferire le partecipazioni pubbliche dal Tesoro alla Cassa Depositi e Prestiti. Piano, tra le altre cose, finito nel cestino per le osservazioni fatte da Eurostat, l'istituto di statistica europeo, che aveva fatto capire che un'operazione del genere comportava il rischio di dover riportare la Cassa dentro il perimetro dei conti pubblici con la conseguenza di dover conteggiare nel debito 150 miliardi di euro in più. Altro che privatizzazioni.
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Il Messaggero