Autonomia, stop di Confindustria su risorse e materie alle Regioni. Gli industriali: «Unità nazionale a rischio»

No al trasferimento delle competenze su commercio e reti infrastrutturali. La richiesta di una «revisione»

Autonomia, stop di Confindustria su risorse e materie alle Regioni
L’autonomia differenziata chiesta dalle Regioni del Nord «non deve compromettere l’unità nazionale». Dunque, vanno escluse dalle richieste «le...

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L’autonomia differenziata chiesta dalle Regioni del Nord «non deve compromettere l’unità nazionale». Dunque, vanno escluse dalle richieste «le materie strategiche per l’economia». E poi il progetto «non deve comportare risvolti negativi sul piano della spesa pubblica». Sono i tre principali paletti posti da Confindustria al ministro degli Affari Regionali Roberto Calderoli e al suo piano per la cessione di sovranità dallo Stato centrale ai governi regionali.

 

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Ad illustrare nel dettaglio la posizione degli industriali, è stato il vice presidente di Confindustria, con delega agli Affari regionali, Vito Grassi, durante un convegno organizzato dalla Svimez proprio sul tema dell’autonomia differenziata. Il punto centrale riguarda la richiesta di Veneto e Lombardia di poter gestire tutte le 23 materie che oggi fanno parte della legislazione concorrente con lo Stato. Queste materie, ha spiegato Grassi, «richiedono quantomeno una revisione». Più di una, secondo l’associazione degli industriali, andrebbe cancellata dal novero di quelle che possono essere cedute alle Regioni. Come, ha spiegato Grassi, tra queste sicuramente «le politiche commerciali dell’Unione europea e le politiche commerciali extra Unione europea». Ma anche le competenze sulle «grandi reti energetiche e di comunicazione».

 


La ragione è semplice. «Siamo in un momento», ha sottolineato il vice presidente di Confindustria, «in cui parlare di competitività dei territori è riduttivo. L’industria nel mondo sta affrontando le sfide del 5.0, e la sta affrontando verso grandi sistemi organizzati» come «Usa e Cina che hanno messo sul piatto per la competitività cifre inimmaginabili». Non è insomma possibile, ha spiegato Grassi, che le scelte sulle reti energetiche o su quelle di comunicazione, «possano essere declinate da campanilismi regionali» ma «devono essere asservite a strategie e scelte comuni condivise all’interno del mercato unico europeo». In realtà per le Regioni del Nord la questione delle reti infrastrutturali è una questione cruciale all’interno del progetto autonomista. Lo ha spiegato il presidente della Svimez Adriano Giannola. Le infrastrutture, ha detto, «abilitano una Regione a farsi Stato gestendo le autostrade, i porti, gli aeroporti, la protezione civile, le ferrovie». Tutte competenze che potranno essere immediatamente trasferite senza dover attendere la definizione dei Lep, i livelli essenziali delle prestazioni. Ma c’è un altro punto che fino ad oggi è sfuggito al dibattito sull’autonomia chiesta da Veneto eLombardia. Una sorta di “fase 2”, un piano più a lungo termine che sarebbe una conseguenza logica «inevitabile» del disegno Calderoli. Si tratta della costituzione di quel “grande Nord” sognato agli albori dell’esperienza leghista. 


IL PASSAGGIO


L’articolo 117 della Costituzione, ha ricordato Giannola, al suo comma 8 prevede che le Regioni possano, una volta ottenuta l’autonomia, trovare intese per costituire organismi comuni. «È il passaggio immediatamente successivo per chi razionalmente vuole l’autonomia», ha detto Giannola. Ed è, ha aggiunto, «una prospettiva perfettamente costituzionale». Una volta partiti Veneto e Lombardia seguiranno Piemonte, Liguria, e potranno aggregarsi, come prevede il disegno di legge Calderoli, anche Valle D’Aosta e Trentino. A quel punto avranno tutte le infrastrutture più avanzate del Paese che potranno gestire con organismi comuni nell’area più ricca d’Italia. Lo Stato centrale, con Roma, diventerà un «fantasma». Si tratta, secondo il direttore generale della Svimez, Luca Bianchi, della fase finale del dibattito nato negli anni 90 dalla volontà del Nord di volersi sottrarre alle politiche dei tagli alla spesa pubblica che si stavano delineando a causa dell’arrivo della crisi.
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Il Messaggero