Leonardo Del Vecchio, morto il fondatore di Luxottica: aveva 87 anni

Si è spento lunedì mattina all'ospedale San Raffaele di Milano, dove era ricoverato

Leonardo Del Vecchio, morto il fondatore di Luxottica: aveva 87 anni
Ex martinitt, è arrivato a costruire un impero, a partire dalle montature degli occhiali e da una piccola fabbrica nel Bellunese, diventando un simbolo in tutto il mondo...

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Ex martinitt, è arrivato a costruire un impero, a partire dalle montature degli occhiali e da una piccola fabbrica nel Bellunese, diventando un simbolo in tutto il mondo sia del saper fare italiano che di un modello di imprenditoria unico, così come del self made man . Cavaliere del Lavoro dal 1986, era uno degli uomini più ricchi d'Italia. Maggior azionista di Mediobanca oltre che di Generali, tre lauree e due master honoris causa. Ecco, un personaggio così, Leonardo Del Vecchio , non c'è più. Il fondatore di Luxottica aveva 87 anni e si è spento stamane al San Raffaele di Milano. Aveva la passione, o la sana ossessione per il lavoro.Ripeteva spesso: «Se ti distrai anche per un attimo o ti culli sugli allori, senza che neanche te ne accorgi arriva qualcuno a portarti via il mercato». Lucido, lungimirante: questo il dna del personaggio, un grande capitano d'impresa. Della sua vita, a cominciare dall'infanzia difficile, si è molto raccontato.

La carriera

Nato a Milano nel 1935, da genitori emigrati dalla Puglia, ha vissuto da bambino nell'orfanotrofio dei Martinitt, dove sono cresciuti altri grandi dell'imprenditoria italiana come Edoardo Bianchi e Angelo Rizzoli. Del Vecchio ha poi rivelato: «Sono cresciuto senza padre e in istituto. Crescere è qualcosa che non si può spiegare, se non lo si è vissuto. Ti segna». 

Ma come ha fatto del Vecchio a costruire una fortuna valutata oltre 30 miliardi di dollari? Tommaso Ebhardt, capo della redazione milanese di Bloomberg Tv, in un bel libro racconta con uno stile tutto personale la storia dell’imprenditore noto per l’estrema riservatezza ma anche per la grande determinazione. E narra di come un bimbo nato nelle case minime della periferia di Milano e cresciuto nelle austere camerate di un istituto per orfani, abbia potuto creare l’impero EssiLux e scalare le vette dell’alta finanza partendo da un piccolo laboratorio. Ebhardt negli archivi dell’orfanotrofio Martinitt di Via Pitteri si è imbattuto per esempio nelle commoventi lettere della madre vedova. Ha parlato con i primi operai di Del Vecchio, con i concorrenti, con estimatori e detrattori, con chi – come Giorgio Armani – ha fatto un pezzo di strada con lui. E ne ha composto un ritratto che vuole anche essere un esempio di come la determinazione imprenditoriale, quando è autentica, riesce a farsi strada pure tra mille difficoltà. È un personaggio insomma da romanzo di formazione Del Vecchio e da epopea di un’Italia fattiva che inventa,  cresce, si afferma con la forza delle proprie capacità e pone l’Italia al centro dell’attenzione come esempio di un capitalismo sano. 

Da un lato è stato sempre pronto a cogliere le opportunità di crescita per la sua azienda, ad abbracciare il cambiamento tecnologico alleandosi con i leader globali dell’era social come dimostrano gli occhiali sviluppati con Meta, all’epoca Facebook. Da un altro lato, è rimasto al centro dell’attenzione del mondo finanziario per il suo attivismo come investitore in banche e assicurazioni. Quando si dice un capitalista a tutto tondo. Molto italiano e molto globale. Dal 1969 diventa proprietario unico dell’azienda. Da allora Luxottica non ha smesso di crescere a livello internazionale e tramite acquisizioni. Nel 2017 la notizia del matrimonio fra Luxottica ed Essilor: una fusione da 50 miliardi di euro. 

La giornata simbolo

Nella sua storia dickensiana c’è una giornata simbolo. Domenica 11 settembre 1949, finalmente una splendida giornata di sole. Mezza Italia conta i danni del maltempo. Quello che torna a casa non è più lo spaurito bimbo che aveva varcato il portone del Martinitt sette anni prima, ma un ragazzo che ha imparato un mestiere e non vede l’ora di mettersi alla prova. Leonardo torna nell’abitazione in Via Forze Armate dove vivono ancora la mamma, che adesso fa l’orlatrice, il fratello ventunenne, argentiere, e la sorella, diciannove anni, ricamatrice. Vivono tutti nei due locali al secondo piano delle case minime. Alla mamma e ai fratelli maggiori chiede solo una cosa per cominciare la sua avventura nell’età adulta. «Compratemi una bicicletta: vedrete, mi servirà a far soldi».

Pedala svelto Leonardo in una città che ha voglia di rinascere dalle devastazioni della Seconda guerra mondiale. I bombardamenti hanno distrutto un terzo del patrimonio edilizio di Milano: quattordicimila palazzi rasi al suolo, undicimila gravemente danneggiati, tra cui Palazzo Marino, il Castello Sforzesco, la Galleria Vittorio Emanuele. Duecentocinquantamila edifici sono da ricostruire. L’imperativo assoluto dell’immediato dopoguerra è lo sgombero dei detriti e il ripristino delle attività. Del Vecchio è un ragazzo intraprendente che si trova al momento giusto nel posto giusto. «Io di scuola ne ho fatta molto poca, a quattordici anni sono andato subito a lavorare». La sua generazione è quella in cui nascono gli imprenditori protagonisti del capitalismo famigliare italiano che caratterizza il nostro Paese nella seconda metà del Novecento: dagli anni Sessanta del miracolo economico fino alla pioggia di schei nel Nordest vent’anni dopo. Non è un caso se i patriarchi di alcune delle aziende più iconiche del made in Italy sono sostanzialmente coetanei: Giorgio Armani è del 1934, Del Vecchio e Luciano Benetton del 1935, Silvio Berlusconi del 1936.

Armani, che con Del Vecchio instaura negli anni Ottanta un sodalizio che trasforma il mondo dell’ottica in un settore fashion, raccontava così l’energia di quel periodo. «La nostra generazione ha vissuto momenti duri che l’hanno temprata: gli anni della guerra e della ricostruzione. A un certo punto non c’era nulla e bisognava ripartire da zero, e questo scenario offriva molte possibilità», spiega. «I ricordi che ho della Milano dei miei inizi li paragonerei a un foglio bianco sul quale ognuno di noi poteva scrivere un paragrafo o un’intera storia. Furono anni indimenticabili, pieni di energia». Ragazzini del dopoguerra che hanno trovato nel boom economico l’humus adatto per realizzare i loro grandi sogni. Uomini ossessionati dalle proprie aziende, molto più di un luogo di lavoro, autentiche creature plasmate a loro immagine e somiglianza, imprenditori che non hanno alcuna intenzione di mollare le redini, anche quando hanno da tempo superato gli ottanta.

«Dovete diventare qualcuno!». L’esortazione che Philip Roth ha immaginato per i compagni del liceo in Pastorale americana, potrebbe essere traslata al di qua dell’Atlantico in una Pastorale per i bimbi degli anni Trenta. Ognuno cerca la sua ragion d’essere, il giovane Del Vecchio la trova nel lavoro. Ogni mattina, dall’estrema periferia ovest si sposta in centro, per fare il garzone alla Johnson di Porta Nuova. Quasi dieci chilometri in bicicletta, attraverso Parco Sempione, sino alla fabbrica, passando davanti alle ville dei sciuri prima della Triennale, senza neanche sognare che una delle più belle sarebbe diventata sua cinquant’anni dopo.

Vede il primo stipendio, guadagna «trecento lire alla decade come apprendista incisore e disegnatore». Poca roba, la paga di un operaio è sulle 2.000 lire al mese, ma intanto intasca i suoi primi dané. Leonardo parte dal basso, dall’ultimo gradino della scala sociale. «Una volta non era mica come adesso, che quando uno va a lavorare trova subito un ambiente rispettoso», spiega schivo in un video sul sito aziendale che oggi stanno tutti cliccando nel dolore e nel cordoglio e  in cui Leonardo ripercorre le tappe della sua carriera. «All’epoca non sapevano neanche il tuo nome, manco mi chiamavano per nome quando avevano bisogno di me». Fioeu, lo chiamavano sbrigativamente, e lui correva a dare una mano agli altri operai della Johnson.

L'ascesa

È un inizio senza sconti, in cui bisogna tener duro e mangiare la polvere. Alla Johnson, Del Vecchio studia come si fanno gli stampi per le medaglie. È l’ultimo arrivato di otto operai, il giovane apprendista a cui si può chiedere qualsiasi cosa. I suoi colleghi lo mandano tutti i giorni a comprare il pranzo. Impara sul campo e la sera studia all’Accademia di Brera, dove i padroni della Johnson, viste le sue capacità, lo iscrivono ai corsi di disegno e incisione. Del Vecchio, con la licenza di quinta elementare, entra nel tempio milanese dell’arte, dove si vede e si respira cultura e bellezza. Sono proprio quei tre anni e mezzo alla scuola di Brera a cambiarne il destino. Appena vede una possibilità di crescita, prende e va. «Mi ero stancato di fare il garzone e mi licenziai, anche perché mi era stata offerta la possibilità di diventare operaio». È il momento di partire, lasciare Milano e trasferirsi al Nordest. Leonardo ha dalla sua l’abilità di artigiano e un’ormai acquisita sicurezza nei propri mezzi. «Mi sono accorto di essere bravo perché quando consegnavo il mio lavoro finito ricevevo subito nuove commesse e non dovevo mai apportare modifiche», così ha raccontato. Fare bene il proprio mestiere, qualsiasi esso sia, essere il migliore. È uno dei cardini della filosofia di vita del futuro Mister Luxottica, un pensiero lineare senza troppi fronzoli, di quelli che ti rimangono impressi nella memoria come i dialoghi asciutti dei personaggi dei romanzi di Cesare Pavese, scritti proprio in quegli anni.

La crescita del proprio gruppo coincideva nella sua visione con la crescita dell’Italia e la crescita del Paese passava nella sua concezione anche attraverso istituzioni importantissime come Mediobanca. E così spiegava le sue grandi manovre finanziarie: «Mediobanca è strategica, serve un piano ambizioso». Quello a cui ha lavorato a lungo, in parallelo con la battaglia su Generali. Dare stabilità al sistema finanziario e slancio al sistema economico, puntando su competenza e merito, era la sua stella polare, il suo imperativo di uomo di successo e di creatore di futuro. Diceva ancora: «Insieme a Generali, con Trieste che deve tornare centrale nello scacchiere mondiale, Piazzetta Cuccia è uno snodo cruciale». Un uomo così ce lo hanno invidiato nel mondo ma se lui non c’è più, resta l’orgoglio italiano di averlo avuto tra di noi anzi di gran lunga tra i migliori di noi.

 

 

 

 

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Il Messaggero