Italiana bloccata da 3 anni a Lanzarote: è accusata di omicidio. L'appello del padre: «È malata, fatela tornare»

Italiana bloccata da 3 anni a Lanzarote: è accusata di omicidio. L'appello del padre: «È malata, fatela tornare»
Lara, 30 anni, da tre anni è bloccata a Lanzarote perché accusata di omicidio colposo. Ma Lara, italiana, è anoressica con un urgente bisogno di cure. A...

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Lara, 30 anni, da tre anni è bloccata a Lanzarote perché accusata di omicidio colposo. Ma Lara, italiana, è anoressica con un urgente bisogno di cure. A denunciare il caso all'Adnkronos è "Prigionieri del Silenzio": la onlus, impegnata per la tutela dei diritti dei connazionali detenuti all'estero e il sostegno alle loro famiglie, si sta occupando della vicenda che ha risucchiato la 30enne nel 2016 e si sta battendo per farla tornare in Italia in modo che possa curarsi.


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A fine 2015, insieme all'allora fidanzato, Lara si trasferisce a Lanzarote con il sogno di una vita diversa. Fino alla sera del 2016 in cui, all'uscita da un locale, la coppia ha in auto un incidente stradale in cui muoiono due pedoni. Lara si assume la responsabilità. Le vengono tolti i documenti validi per l'espatrio. In seguito dirà che in realtà non era lei alla guida, ma che si è assunta la colpa perché il fidanzato non aveva la patente. Ritratta, ma non serve. Come non servono le successive ammissioni del fidanzato. Lara si ritrova sola in un tunnel del quale ancora non si vede via di uscita: in attesa della fine della vicenda giudiziaria, non può lasciare Lanzarote dove resta sola con la sua malattia, che preoccupa sempre più la sua famiglia. «Mia figlia ha grossi problemi psico-fisici legati a una forma di anoressia, è fortemente instabile e ha sbalzi umorali e mentali micidiali - racconta il papà della 30enne - Dopo oltre tre anni è bloccata lì, senza documenti e senza la possibilità di lavorare, senza cure mediche, con problemi economici. In passato ha tentato il suicidio, è ridotta una straccio, non si può trattare così un essere umano. Vogliamo che venga fatta tornare in Italia, vogliamo curarla».

Il padre è stato quattro mesi lì, fino a febbraio scorso, proprio per darle una mano: «Ma non è facile, ci sono momenti in cui si lascia aiutare, altri no. Qui si tratta di una questione di sopravvivenza fisica, psicologica, mentale ed economica», continua. «L'ambasciata sta lavorando, Lara è assistita dai servizi sociali, ma non basta, ha bisogno di assistenza h24», afferma l'avvocato Francesca Carnicelli, legale di 'Prigionieri del Silenziò che ha accettato di occuparsi del caso di Lara in pro bono. «Lo Stato italiano intervenga affinché questa ragazza possa rimpatriare per motivi umanitari», sottolinea. «Noi chiediamo venga data la possibilità a questa ragazza di rientrare in Italia per curarsi perché ha bisogno di aiuto - aggiunge l'avvocato Carnicelli - Esiste un meccanismo per cui si può espiare la propria pena anche in un'altra nazione, stiamo parlando di Europa». Il legale spiega di avere difficoltà anche a capire il reale andamento del processo. «Il suo legale spagnolo, un difensore di ufficio, non vuole avere contatti con me, neanche con l'autorizzazione di Lara - riferisce l'avvocato Carnicelli- L'incidente stradale è avvenuto nel 2016, lei si è assunta la responsabilità di essere al volante, salvo ritrattare e anche lo stesso fidanzato poi si è assunto la responsabilità. Ma per lo Stato spagnolo chi ha commesso il reato è lei ed è stata rinviata lei a giudizio». Per assurdo «se avesse patteggiato sarebbe in Italia da un pezzo: è una persona che sta male, tenta di far valere i suoi diritti, ma si trova vincolata lì come se fosse la delinquente peggiore del mondo».


Quello di Lara è solo uno dei tanti drammatici casi che si ritrovano a vivere nostri connazionali nel mondo, come racconta la presidente di 'Prigionieri del Silenziò Katia Anedda nel suo libro 'Prigionieri dimenticati - Italiani detenuti all'estero tra anomalie e diritti negatì. Tra le tragiche storie riportate quella dell'ex compagno di Anedda, Carlo Parlanti, manager informatico che fu vittima di una vicenda giudiziaria in Usa e costretto a scontare 9 anni di carcere. «Le ragioni che ci hanno indotto a dar vita all'associazione sono evidenti: spesso i detenuti italiani vengono sottoposti a condizioni di vita lesive dei più elementari diritti dell'uomo e assolutamente non compatibili con l'obiettivo della riabilitazione cui la pena deve essere finalizzata - sottolinea Anedda - Mancano inoltre idonei strumenti di assistenza, con la conseguenza che sovente i detenuti all'estero non ricevono neppure le cure mediche del caso, né un'appropriata difesa legale. L'Italia non prevede, in questi casi, l'istituto del gratuito patrocinio e anche gli aiuti che possono essere concessi dai Consolati italiani sono solo facoltativi. Tutto ciò causa condizioni di detenzione inique e una tutela legale debole o inesistente che comporta in taluni casi condanne ingiuste».
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Il Messaggero