Dalle seconde case alle scuole, lo strano valzer dei divieti nel Dpcm smentiti dalle “fonti” di Palazzo Chigi

Nella selva oscura delle direttive su come muoversi dentro la pandemia nelle diverse regioni spunta il perfido gioco della mosca cieca: “fonti di palazzo Chigi”, da...

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Nella selva oscura delle direttive su come muoversi dentro la pandemia nelle diverse regioni spunta il perfido gioco della mosca cieca: “fonti di palazzo Chigi”, da una parte, informano che è sempre possibile raggiungere le seconde case, anche fuori Regione, mentre se si legge con attenzione il relativo Dpcm di questa opportunità non v’è traccia alcuna. 


Si può dare il caso che, fermati a un posto di blocco, Dpcm alla mano, i tutori dell’ordine si sentano obbligati ad applicare le sanzioni previste. Non si tratta di dettagli, di piccoli refusi, di vuoti del testo: qui si gioca su un equivoco di fondo che alimenta confusione, frustrazione, disincanto, e in più si crea un campo di conflitti.


Le famose “fonti” bene informate troppo spesso sbarellano, costrette a correzioni, notazioni, dietrofront. Tanto la fonte è ignota per definizione. I destinatari, noi tutti, sono così obbligati ad aggiornamenti e aggiustamenti in corsa, continui, nevrotizzanti. 


Nel pieno della giornata festiva, ieri, il ministro della Salute Speranza ha convocato d’urgenza il Comitato Tecnico Scientifico e ha ottenuto per oggi il rientro a scuola del 50 per cento degli studenti delle superiori, eventualità non prevista fino a un’oretta prima. Salvo le differenze tra Regioni e i comportamenti dei presidenti. Alcuni di essi già pronti con carta e penna, per i ricorsi al Tar, altra specialità di stagione: governo e istituzioni locali litigano quasi su tutto e i magistrati dirimono le questioni. 


A leggere le sentenze, poi, servono comitati di esperti crittografi, addetti alla traduzione in lingua italiana corrente, comprensibile agli italiani. La questione della comunicazione del governo, ma non solo di quello, del burocratese dilagante e del compiacimento sadico che ne consegue, in tempi di guerra alla pandemia, rappresentano un tema primario, fondamentale. Tema, dicono i fatti, ignorato e anche vilipeso. 


La lingua utile e comprensibile viene strapazzata, piegata, costretta nei labirinti di linguaggi intraducibili e, dunque, incomprensibili. Se è vero che il messaggio è come un dardo che viene lanciato da una postazione per colpire il centro del bersaglio, il dardo che esce di traiettoria, prende strade diverse dalla rotta corretta: la comunicazione si accartoccia, manda segnali sbagliati, perde di efficacia, si trasforma in un danno. 


Comunicare sembra facile, non lo è. Quel che è peggio è la presunzione che lo sia. Ad ogni ondata di provvedimenti ministeriali sono necessarie squadre di pompieri del linguaggio per sciogliere i nodi del burocratese, per rendere intellegibili i rimandi ad altre leggi, per svelare l’arcano dei commi e sottocommi, per sciogliere parole difficili che dovrebbe viceversa essere facile comprendere e utilizzare. 


In varie epoche, e anche di recente, sono cresciute ampollose promesse per una riforma del linguaggio, per una grammatica delle leggi e una nuova sintassi ministeriale capaci di superare il politichese, il burocratese e tutto l’armamentario del compiacimento delle complicazioni linguistiche. 


Non si è visto ancora niente all’orizzonte. Il fatto è che occorrono dei professionisti. E se ne vedono pochi. Occorrono staff specializzati. E ce ne sono, ma rari. Un conto è raccontare attraverso il linguaggio delle veline i retroscena, gli arabeschi, il gossip, i veleni, gli aut aut della chimica politica quotidiana, un altro conto è disporre di leggi lineari. Il vezzo di decidere a notte fonda per il giorno dopo scuote la paziente disponibilità del suddito della Costituzione, il quale vorrebbe confrontarsi con una migliore organizzazione del pensiero governativo e dell’azione che lo muove. 


Quante volte è stato criticato il metodo di emanare circolari attuative in prossimità massima del loro impiego? E tutti a dire: come possiamo fare a rispettarle in così ristretti margini di tempo? Di qui, direttamente, rabbia, frustrazione, voglia di rivolta. La pandemia, nella sua enorme e multiforme complessità, porrà sempre di più problemi di comunicazione. Lo vediamo già ora con la campagna vaccinale ai primi passi. Si assiste al susseguirsi degli ordini e dei contrordini, delle grida e dei silenzi, delle affermazioni e delle smentite in un clima di crescente incertezza (A chi tocca? E quando? E dove? E come?). Anche qui le leggi della comunicazione vengono piegate ad un dilettantismo deleterio. Serve e presto una informazione tempestiva e corretta, comprensibile per definizione, che attinga alla scientificità della materia. 


Serve professionismo e un taglio netto con i vizietti del velinismo d’autore. Un cambio di passo, insomma. Il rapporto dialogante con il cittadino in questa fase specialmente diviene essenziale, risolutivo. E quando al cittadino si chiede di adottare comportamenti che implicano sacrifici e costi, che sono comunque virtuosi, ecco che ogni indecisione, sgrammaticatura, ritardo si traduce in uno strappo, in una stizzita indifferenza. Se dalla pandemia si deve uscire tutti insieme chi scandisce il passo deve farlo senza balbuzie.

 

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Il Messaggero